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Un drappel di Cosacchi e uno squadrone Del sesto reggimento dei lancieri, Scortati da due pezzi di cannone. Slanciarono all'assalto i lor corsieri, E in quattro colpi, come è lor costume, Tutti i nemici rincacciar nel fiume. Ma una grossa oolonna sorvenia DalFaltra sponda a rinforzar Pattacoo ; Allora un battaglio^ di fanteria Si mise in marcia per tenerli in scacco, E in due minuti li senza alcun sforzo Rovesciò nel Danubio anche il rinforzo. ( *) Questa relazione ò tratta quasi alla lettera dal Giornale di Pietro- burgo V Invalido nMso. J r EPISODII DELLA GUERRA D* ORIENTE Ritornava alPassalto P inimico Perchè appoggiato da novelli aiuti ; Ma i Cosacchi del Don in men eh' io dico Si scagliaron addosso ai sorvenuti, Ed anche questi, in un sol batter d'occhi Furon tagliati tutti quanti a tòcchi. La vittoria era piena, alloraquando Si vede comparir tre grosse navi Che il campo di battaglia avvicinando Fulminavan di fianco i nostri bravi; Ma con sei pezzi si sospinge innante La nostra eroica artiglieria volante. Ed il suo fuoco è così ben condotto Che due navigli a dirittura aflbnda ; Il terzo resta sì malconcio e rotto. Proprio nell'atto di toccar la sponda, Che in terra e in mare le nemiche schiere Gettano l'armi e chiedono quartiere. Un caporale russo in quel momento Si getta a nuoto, e in mezzo ai plausi e ai viva. Attaccata una corda al bastimento, Se lo trascina bravamente a riva, E così venne fatto prigioniero Colla sua nave l'equipaggio intiero. Furon tremila i Turchi, o poco meno. Che preser parte al fler combattimento: Di questi ne rimaser sul terreno Morti mille, feriti cinquecento. Due mila prigionieri, e fuor di dubio Tutti gli altri annegati nel Danubio. — y jnU 8 EPISODII DELLA GUERRA D' ORIENTE " ^ Queste son le notizie ufficiali Che fu dato raccór dai Manifesti De' nostri rispettivi Generali. Noi non abbiamo a deplorare in questi Assalti replicati ed accaniti Che quattro morti e sedici feriti. Gloria a Dio, gloria al nostro Imperatore, E gloria ai prodi della Santa Armata! - Questa sera per ordin superiore Sarà la capitale illuminata, E a celebrar la memoranda impresa Si canterà il Te deum per ogni chiesa. .-^•M.^ EPISODII DELLA GUERRA D' ORIENTE IL EDIZIONE AD USO PRIVATO Maestà ! Ve lo scrivo in confidenza, Ma i nostri affari van di male in peggio. Voi ci-edevate, con vostra licenza, Di farci fare un trionfai passeggio, Ed invece noi siam qui che facciamo Ciò che r asina fé' di Balaamo. Voi avete un bel dire: Avanti, avanti! Voi che marciate a gambe di compasso ; Ma noi che abbiam tra' pie questi briganti, Non troviam modo di muovere un passo, E coi nostri Te Deum siamo ancor qua Duri e impalati come un anno £bu Siamo in dieci contr'uno, e si diria Che invece siamo in uno contro venti ; Ogni assalto è una vera beccheria. Ohe quei cani-da-Dio di miscredenti Adopran F economica ricetta Di spedirci a Airor di bs^onetta. EPISODII DELLA GUERRA D* ORIENTE Per esempio, Taltrier di notte tempo Quella canaglia, come è suo costume, Fece, dirò così, per passatempo, Un'altra scorreria di qua del fiume; E ci ha dato una tale pettinata Che mezza sola ci sarìa bastata. E per tavola bianca all'improvviso Comparvero tre barche cannoniere Che della Luna al pallido sorriso Ci cacciavan nei fianchi certe pere. Che, se non si scappava a gambe ritte, Ne spazzavano via fin le marmitte. Abbiamo avuto quattrocento morti, Cento feriti e duecento prigioni, Ci buttaron per aria i contrafforti. Ci portarono via quattro cannoni, E, quel che è peggio, fecero man bassa Perfln sui rubli della nostra cassa. E s'intende che questa fino ad ora Appena appena può chiamarsi guerra: Il boccon duro per nostra malora Ce lo apprestan la Francia e l'Inghilterra, . Che, a quanto pare, saran qui ben presto Colle bombe asfissianti e tutto il resto. La faccenda si fa brutta, ma brutta, Che, a conti fatti, voi non siete, o Sire, [^ Che Orazio sol oontro Toscana tutta; E quando noi sarem lì per basire, Yedrete bene (e allora si stiam freschi !) Che avremo sulle spalle anche i Tedeschi. EPISODI I DELLA GUERRA D'ORIENTE 13 ^ "q] Yoi mi direte, e non senza ragione, Che infln dei conti non v'importa un cavolo, Se tutti quanti in questa gran questione Vi danno addosso come foste il diavolo, Giacché potete rimaner tranquillo Finché vi resta il principe Danillo. E in fatti è certo che tra lui e Yoi Un milion di soldati avete armato; Ha dopo tutto, a dirsela tra noi. Il nostro è un certo stampo di soldato Che per farsi ammazzar non ha l'eguale. Ha ne ammazza pochetti, e qui sta il male. — Scusate adunque se vi parlo chiaro, Ha vedrete voi pur che, dopo tanti Sacrifizi di sangue e di danaro, Resteran come sono i luoghi Santi; E temo assai che in conto vi si metta Le spese della guerra e il prò a scaletta. Come Yoi stesso me ne fèste invito, Yi spiflferai cosi alla buona il vero; E dopo ciò, se avete stabilito Che mandiamo all'Inferno anche l'Impero, La Yostra Sacra Maestà comandi, E sarà fatto. IL GENERAL LIPRANDL (GiugQO 1854) IBI UN PROORAMMA POLITICO UN PROGRAMMA POLITICO. ^^ ettrici mie! da qualche tempo in qua Un gran pensier mi va frallando in mente Si tratta d'una grande novità 0, dirò meglio, d' un nuovo ingrediente , Che introdurre io vorrei nel materiale Di questo benemerito Giornale. Esso Tago v'apprende ed il crochet, La storia, la moral, la geografia; V insegna a far le torte ed i purè, Vi diverte con qualche poesia; Ha trascurò flnor di porvi in giorno Di tutto quello che succede intomo. Per esempio finor, da quanto io so, Non disse verbo delPaffar d'Oriente, E, se una volta o due ve ne parlò, Ye ne parlò cosi per accidente; E il suo silenzio, scusi, ma bisogna Che glielo dica, è proprio una vergogna. (*) Pubblicato sul giornale: La Ricamatrice. r 16 UN PROGRAMMA POLITICO Qui l'egregia e spettabil Redazione Con questo paradosso si difende: « Altri fogli hanno assunta la missione Di trattar le politiche faccende; Noi badiamo al telaio ed al ricamo, Né l'altrui campo lavorar vogliamo. » Che scrupoli son questi ? un tal riguardo Gli altri Giornali l' han forse con voi ? Alle pagine lor date uno sguardo, E schiettamente mi direte poi. Se ricami non son, non son trafori Le notizie che danno ai lor lettori. Dunque s'è vero, e ognun lo può vedere. Che i giornali politici in giornata Ricaman le notizie a lor piacere. Se questo è vero, è cosa indubitata Che tal mestiere a voi meglio s'addice, A Voi che fate la Ricamatrice. E qui la rispettabil Redazione Prudentemente il becco s'è cucito: Sicché, mie care, per la gran ragione Che chi tace conferma, è stabilito Che quanto prima si porrà ad eflFetto Il mio nuovo e magnifico progetto. La mia rivista senza tanti imbrogli Della gran guerra vi darà un'idea: Io spigolando andrò da tutti i fogli Quanto di nuovo avvien laggiù in Crimea, E ad una ad una vi saran contate Perfln le bombe che verran lanciate. Fj US PROGRAMMA POLITICO Vi condurrò sul campo di battaglia Tra il fuoco dei moschetti e dei cannoni : In mezzo al grandinar della mitraglia 10 conterò i feriti ed i prigioni ; E, perchè abbiate la misura giusta, "Vi saprò^dir che cosa fa V Augusta. Ed or, lettrici, che la penna mia Ai bollettini della guerra appresto, Voi mi verrete a domandar qual sia 11 colore politico ch'io vesto, E vorrete saper se il Fusinato Sia in fondo un Moscovita o un Alleato. PmniATJ. — V li. UN PROGRAMMA POLITICO Probabilmente qualche mese or fa M'avreste chiesto s'io son Turco o Russo; Ma dallo sbarco d'Eupatoria in qua La Mezzaluna ha perso il primo influsso, • E i Turchi in quest'aflfar, da quanto io vedo, C'entran come Pilato entra nel Credo. Dinque di Turchi non si parli — e poi Che volete infilarmi una divisa. Donne mie care, a dirsela tra noi, La mia bilancia è ancora li indecisa; Anzi prudentemente, infln ch'io posso, Yorrei restarmi cavalcion del fosso. (*) La posa, non lo nego, è alquanto incomoda Ed anche, se vogliamo, un po' indecente ; Per altro vi dirò che la mi accomoda. Perchè in ogni possibile emergente Col voltafaccia lì del Don (jirella Potrei saltar da questa sponda a quella. Ma poi che per piacervi io son costi'etto A levarmi la maschera di dosso E volete ch'io salti a mio dispetto Dall'una parte oppur dall'altra il fosso, Dopo averci pensato alquanti mesi. Mi risolvo in favor dei Gallo-inglesi. A dirvela per altro in confidenza, Siccome io stimo assai lo statu quo, Così nel fòro della mia coscienza Io sempre parteggiai per Niccolò, (*) In questi e nei seguenti ver^ si allud3 alla politica ambigua el escillantj tanuta dab* Austria nella vertenza d*Oriente. UN PROGRAMMA POLITICO Poiché infine Egli è il sol che tiene immota Del reo progresso la volubil ruota. E mi ricordo che qualch'anno addietro, Allorquando l'anarchico torrente Parca che tutte si portasse dietro Le basi del buon ordine presente, Ei solo oppose ai grossi cavalloni La sua diga di rubli e di cannoni. Ed è appunto perciò che ammiratore Com' io sono dell'ordine sociale , A lui mi strinsi d'un devoto amore. D'un amore, direi, quasi filiale; Giacché, voglia o non voglia, é quei che scopa Le liberali velleità d'Europa. Ma tutto ciò sia detto in gran segreto. Così a quattr'occhi tra voialtre e me ; Per cui vi prego, o a meglio dir, vi vieto Di palesare il mio pensier qual è, Poiché per certe mie ragion speciali Or sto per le Potenze occidentali. Non dovete però meravigliare Se, a dispetto del mio convincimento, Io trovo conveniente il dire e il fare Al rovescio di ciò che bramo e sento; Che in questo mondo chi é più furbo e scaltro Pensa in un modo ed opera in un altro. Dunque, senz'altre chiacchiere, io mi metto Con quei signori che da un anno in qua rj" a 20 UN PROGRAMMA POLITICO ^ ^ Van combattendo, a quanto ci hanno detto, Sol per la causa della Civiltà, Che, attesa l'espressione un po' simbolica, Esser potria la Civiltà cattolica. Ma non parliam d'avvenimenti arcani Che in fin dei c^nti sono in man di Dio ; S'oggi la va così, forse domani L'andrà diversamente, e a parer mio \ Ciò che di meglio or ci rimane a tare ( È sperare, sperare, e poi sperare. Ed or, riepilogando il fin qui detto, !» Io vi ripeto a mo' di corollario ^ Che ad onta del mio amor per Niccolotto, > Almen per ora gli sarò contrario, E i bollettini miei scritti saranno In senso Turco-lranco-austro-britanno. ((ti'IUiaiu \^'ìa) 'V»' •s^>w' IN MORTE DELL'ORO , Il metallo prediletto '^": \ Sarà il piombo — e ci icvmmetto. IN MORTE DELL' ORO IN MORTE DELL'ORO (*> Il tiranno ^ caduto — Sorgete, Genti oppresse; natura respira! - V. Monti e "profundis l nel lenzuolo Giace avvolto il fler Golia, Che dall'uno all'altro polo Tenne il mondo in sua balia! De' metalli il Monsieur BoucOy (**) De profundis ! non è più. — Non è più — l'Olanda e il Belgio Gli cantarono l'esequie; E noi pur sull'auree ceneri Invochiamo e pace e requie! Or che al mondo più non è, Requie e pace al Re dei Re. (*) La scoperta delle miniera d* oro nella California portò a quel tempo un passdggiero deprezzamento di questo metallo nei. mercati europei* (**) Celebre lottatore di quel tempo. IN MORTE DELL'ORO I Banchieri messi a lutto Sono accorsi al funerale; Chiuse a chiave dappertutto, Delle Borse l'ampie sale Portan scritto sul portone PER LA MORTE DEL PADRONE . Pover'oro! nella polvere Il destino t' ha travolto ; Profanato fu il tuo tempio, Il tuo altare capovolto ; Come il figlio del delitto. Sei dannato, sei proscritto. Come Giove, dal tuo trono Sei tu pur precipitato, Sei rimasto in abbandono Come un cencio inzaccherato. Sei bandito dal frasario Del moderno dizionario. — Che affar d*orol — sui mercati Si gridava l'altro di : Or quei tempi son mutati, Non si parla più così. Ma piuttosto dir si de' : Oh che affar d'argent plaqué! — — Che aureo cuore, che aureo giovine! Mi dicevan tempo fa: Se mi danno ancor delVaureo, Monto in bestia come va: Si può dir con più ragione — Oh che cuore di pakfone ! — IN MORTE DELL'ORO 25 V-^'\— '~V-/' N^ •'^, — Del pensier Vaia doraia — Gorgheggiò qualche poeta: Ma che diavolo! in giornata L'è una frase troppo vieta; D'ora in poi '1 pensier del vate Dovrà aver Vali stagnate, — Sogni d\ ro, tempo fu, Sognavamo tutti noi ; Ma quel tempo non è più : L'oro è morto — e d'indi in poi Le vision della giornata Son di carta monetata, — Californici Giasoni, Che tosate il vello d'oro, Non sciupate da minchioni E le forbici e il lavoro: Ritornate ai vostri lidi, Californici Oricidi, Kon sapete che quaggiù Del decrepito metallo Non vogliam saperne più? Che un di o l'altro senza fallo Per tre o quattro carantani S'avrà un mucchio di sovrani? Ghe cuccagna! di zecchini Avrem piene le scarselle; Colle doppie i birichini Giocheranno alle piastrelle, E i luigi le funzioni Sosterranno dei bottoni. j r 26 IN MORTP: DELL'ORO Che cuccagna! vi prometto Che fra quattro o cinque mesi Avrem d'or lo saildaletto, Le marmitte..,, ed altri arnesi: Dio noi voglia, per la strada Sputerem suU'oro-spada (*) Nuovi Mida, al nostro tócco Tutto in òr sarà cangiato; Noi l'avremo un soldo al tòcco Come il zucchero filato; Per due prese di tabacco Noi ne avremo pieno un sacco. D'ora innanzi in un contratto Leggeremo a chiare note: *^ L' acquirente assume il i)alto « Di pagare in Banconote ; « Sia in ììioneta, o {jre{/gio, o fuso, « Già s'inleìide, l'oro escluso. ^ • Ora poi che il grande Autocrata Deir Impero minerale Yive solo nelle pagine Della Storia Naturale, Qual metallo verrà assunto Allo scettro del defunto? Come spesso nasce il caso Nelle gran rivoluzioni Che alla barba di chi ha naso Vanno a galla i più minchioni, n Cosi chiamano gli orefici l*oi*o di titolo sopraffluo. — It! chiara Tal Iasione alle sciabole e! e gli urflc.iali aasti*iaci strascinavano per le vie. IN MORTE DELL'ORO Vedrem forse ai primi stalli I più sciocchi dei metalli. C'è Sempronio che pretende Che V argento abbia il primato; Tizio invece (già s'intende Che il mio Tizio è un impiegato) Vuol sul trono delP ex-oro I biglietti del tesoro. Io non sto, ve l'assicuro, Né con quello né con questo; Ma, spiando nel futuro, Son per dir che tardi o presto II metallo prediletto Sarà il piombo — e ci scommetto. {Febbraio 1851) LI MlLtTTU DELL'UVl LA MALATTIA DELL'UVA LA MALATTIA DELLUVA A L. MASPEEO. O Tutto ciò che noa è applicabile non ò buono. Assioma d'Agronomia. la quei musi così negri, ^0 pensosi possidenti! Bevitori, allegri, allegri ! Siam nel secol dei portenti : Noi sapete ? l'altro dì La montagna partorì. Dopo un anno di dolori (**) La montagna da' suoi fianchi Il gran parto buttò fuori, E quarantamila franchi Hanno fatto, a quel che pare, Il mestier della comare. O Qu38ti versi si devono riguardare com3 un sumplice Scherzo poetico, essendo troppo noti gli onesti intjndimenti di chi trovava e suggeriva il rimedio. « n sottoscritto dichiara che la malattia deiruva ha origine, sicondo « le sue ossarvazioni, dove i nuovi tralci escono dai tralci vecchi. « Si manifesta dapprima tal malattia con piccola escrescanza o pusto- « letta biancastra, una sostanza bianca o muffa, che prende forma di « anello. A poco a poco questa sostanza si estende su tutto il tralcio, e « sulle foglie e i finitti. < « // rimedio (rotato consista' neV.o stimar-i con l 'ma di temperino, ' « od anche colle unghie l'indicata pustoletta, e nello strofinar : e ripu- « lire diligentemente la detta corona con un forte spax iettino, come p. e. «. uno spaz iettino da denti > Luigi Masfero. (**; È noto ccme il rimt»dio del Ma^pero si an lasse elaborando da circa un anno e come non sia stato pu'iblicato che dopo raccolta la somma da lui invocata come premio f?e!Ia sooperla. t « Urazie a Dio, l'irrimediabile Malattia che fa la guerra Al più caro vegetabile Onde lieta "va la terni, Non è pili, non ò un mistero... Domandatelo a Maspero. É^ Quest'orribile malore, Questo Sosia del Cholera, Questo insetto stniggitore, Lo sapete che cos'era? Esultate, o possidenti.... Nulla più che un mal di denti ! LA MALATTIA DELL'UVA Sissignori, un mal di denti, Una specie di calcino, 0, se meglio vi talenti, Una carie o lì vicino. Non credete che sia vero? Domandatelo a Maspero. E che infatti il morbo strano Sia un afiare da dentista. Lo si tocca colla mano. Lo si vede a prima vista; Basta legger la ricetta^: — Ugne lunghe e una spazzetta. — Signorine profumate, Giovinotti del bon-ton/ Che vostr'ugne modellate Sugli artigli del lion. Presto ai ranghi e in campo uscite Al servizio della vite. Che se troppo stanvi a cuore Le vostr'ugne alabastrine. L'odontalgico dottore Yi sa dir che puossi infine Salvar Pugne.... ed anche il vino Con un po' di temperino. Anzi dicono che in mare Ci sian cento brigantini Tutti carchi, a quanto pare. Di spazzette e temperini. Per armar la gran crociata Dal Maspero inaugurata. VUIIMATO. — ^ II. LA MALATTIA DELL'UVA Ed inver, se si rifletta Al processo della cura, Si vedrà che la ricetta È ben semplice e sicura, Se ogni vite potrà avere Per lo meno un infermiere. Or facendo un po' di conti, E sommando all'indi grosso Quante viti ai piani e ai monti Ponno aver la peste addosso, Sarien certo insufficienti Diecimila reggimenti. In tal caso, a far man bassa Sul crittogame invasore. Ci vorrà la leva in massa, Non è vero, il mio dottore? Ma le masse, lo sapete, Aman meglio di star chete. E che importa? Non per questo Si dirà che sia men vero Lo stupendo manifesto Pubblicato dal Maspero: È sua colpa se il progetto Non può mettersi ad effetto ? [gis- se un milione di soldati Possedesse il gran Sultano, In due giorni i Principati Tornerebbero in sua mano; Ma gli manca quel milione!..; Lo capite il paragone? er.*. LA MALATTIA DELL^UVA È perciò che da onest'uomo, Dopo lunga riflessione Per veder se quel da Como Abbia il torto o la ragione, Alla fin mi sono indotto A decider come sotto: — Visto, letto, esaminato Il rimedio del Maspero, Ed essendo risultato Il prodotto.... d'un bel zero, Ei dovrà restituire Le quaranta mila lire. Ma però in ricognizione De' suoi studi umanitari, pietose anime buone, In^^mancanza dei denari. La sua fronte redimite.... Con dei pampini di vite. — (Settembi-e 1853) UN AUTO DA FÉ UN AUTO DA FÉ' NEL 1856 E ra il venti novembre -r a lunghi tocchi Q^l\ campanon dell'Università . Scuoteva i vetri del CaflFè Pedrocchi, Dove tra un pan di Spagna ed un Débats L'umilissimo vostro Fra'Fusina Stava leggendo un latte di gallina. A quel don-don la convenuta gente Vidi alzarsi d'un tratto e filar via; Ond'io, vòlto al garzon subitamente, Di tanto moto gli richiesi il quia; Ed ei : — Non sa ? cuccagna al Bò, cuccag na Per rinaugurazion dell'Aula Magna. — Ora, se noi sapete, io vi dirò Che son curioso al par d'una donnetta, E che dove van gli altri anch'io ci vo; Onde, lì su due piedi, in tutta fretta Tracanno il latte, ingollo il pan di Spagna, E corro difilato all'Aula Magna. — Bella, bellissima La Magna Sala Golia sua splendida Veste di gala, UN AUTO DA FÉ Colle sue seriche StoflFe a rabesco, Co' suoi mirabili Dipinti a fresco! Eitinta e liscia Della persona, La venerabile Vecchia matrona, La numismatica Polve detersa. Dai dì che furono Quanto diversa! Que'suoi marmorei Stemmi vetusti, Dal voi dei secoli Tarpati e frusti, A guisa d'ellera Spandeansi allora Su per le squallide Pareti; ed ora Stuccati a mastice. Dorati a fuoco. Mutando faccia. Colore e loco. In più simmetrica Architettura AUìnearonsi Lungo le mura. UN AUTO DA FÉ Fu, è ver, lo storico Ordin violato Dell'accademico Jus dell'Ornato; Ma pur che l'occhio Pago ne sia. Eh ! vada al diavolo L'Archeologia ! storiche Memorie, abbasso ! Evviva il regolo, Vìva il compasso! 40 UN AUTO DA KÈ ) ; La cronologica Ragion che vale, Quand'è in pericolo La visuale? Via quelle gotiche Reliquie! Evviva, Norma d'estetica, La Prospettiva! — Ingombro inutile, Sorgea da un lato Un vecchio pulpito Rozzo e tarlato; E da tre secoli Le sue pareti Copriva il nomade Ragno di reti. Che far d'un mobile Frusto e rifrusto. Barocca satira Contro il Buon Gusto? Della magnifica Aula al decoro Fiocchi ci vogliono. Velluti ed oro. Eh! vada al diavolo Questo archileo Che ha nome Cattedra Di Galileo. §bh. UN AUTO DA FÉ Oh! d'una storica Scranna ammuffita Meglio una seggiola Bene imbottita! Se perde l'Aula Quel bel gioiello, Chi mai ne scapita? — Forse il Bidello, Che più non traffica Sul vieto arnese, Tassando Testasi Del lord inglese. Eppur, mi scusino Se glielo dico, Certe buon'anime Di stampo antico Serbar volevano Ad ogni costo La vecchia Cattedra Kel vecchio posto. . — « Obbrobrio, strillano, I venerandi Ricordi offendere Dei nostri Grandi! Son sacre pagine. Che alla memoria Dei tardi posteri Legò l'Istoria, -^1 UN AUTO DA FÉ Perchè nel volgersi Lungo dei tempi S'eterni il lascito De' grandi esempi! Obbrobrio, obbrobrio, I venerandi Bicordi struggere Dei nostri Grandi! » - Eh via, che diancine! Tanto fermento Per quel bel mobile Del cinquecento? Se il voto artistico Oggi condanna Del gran filosofo L'informe scranna, Oh! non crediatelo Perciò proscritto... Eesta in effigie Lassù in soffitto! E poi, sappiatelo, Questo archileo Che chiaman Cattedra Di Galileo, E ire una fisima Tradizionale, Che in linea storica Val quel che vale. UN AUTO DA FÉ 43 Vi par che rinclito Professorame, Senza le indagini D'un lungo esame, A tanto oltraggio ? Vorria dannata ; . Una reliquia ; Di tal portata? l Neppur pensarsela Che quegli Egregi Possan commettere Tai sacrilegi! ; La vera Cattedra ; Sta custodita, ^ A quanto dicono, ^ In acquavitai ì ^ E coram populo, ^ Sana, incorrotta, ^ A tempo debito ^ Sarà prodotta. ; > Intanto al diavolo Questo archileo !> Che chiaman Cattedra l Di Galileo! Via questo scheletro Tradizionale, Quando può togUeroi La visuale! r^ UN AUTO DA FÉ: Via quelPapocrifa Memoria! Evviva, Norma d'estetica, La Prospettiva! Viva la Triade Ornamentale, Che pose all'Indice Quello scaffale ! Viva l'industria Del falegname. Che quel noetico Goffo carcame Ridusse in cenere Sotto quell'olla, Che al gran ristauro Scaldò la colla ! (*) (Dicembre 185G) {*) Era voce accroditata che le reliquie della cattedra di Galileo aves- 861*0 servito a riscaldare la colla dei falegnami che* lavorarono a questo rista ui'O dell'Aula magna. La salute, ci-ddetelo, Val più d'uà terno al lotto;. |niJ IL RITORNO in *" IL RITORNO (*> Ah! ballo a me ritorna.... Norma. In primis, dopo un secolo, Che non ci siam veduti, Lettrici mie, vi spiffero Un mondo di saluti, E v'annunzio di poi.... Ch'io sto benone.... e Voi....? La salute, credetelo, Val più d'un terno al lotto ; Benché in questo mondacelo Così tristo e corrotto Anche un terno non sia Roba da buttar via. Dal Qiornale La Ricamatrice, L» aalute, credutelo, Val più d'un tai-uo [nU 48 IL RITORNO *J^ mBt^ Anzi, se debbo dirvelo Lì proprio alla papale, Un ternetto in saccoccia Non mi farebbe male, Fossi pure costretto A star tre giorni in letto. Ma, lasciando gl'inutili Preamboli da un canto, Yoi non potete credere Quanto ho sofferto e pianto, E se mi parve eterno Lontan da voi l'inverno! Un disgraziato equivoco Di tanto mal radice, Fece montare in collera Mamma Bicamatrice, Ch'ebbe l'impertinenza Di mettermi in quiescenza. Tolto così all'assiduo Dolce consorzio vostro, Nel muto calamaio Lasciai seccar l'inchiostro E appesi ad un arpione Il vecchio colascione • Né basta — in mezzo all'ansie Del mio dolor profondo Diedi un addio all'insipide Gioie di questo mondo; L'arpa spezzai del vate E mi conversi in frate. |nT3 IL RITORNO 49 " jj Corsi cosi ad iscrivermi Qual padre missionario Nell'Ordine del Pungolo, Giornale ebdomadario E legittimo erede Di Quel che non si vede : (*) E imperturbato apostolo Del vocabolo Avanti! Propagai fra gli eretici, Che qui tra noi son tanti, La perigliosa scuola Di quella gran parola. Pur, benché morta al secolo. L'alma di Fra'Fusina Spesso col desiderio A voi correa vicina, Mandando a tutte in giro Un flebile sospiro. E sì m'angeva il memore Pensier dei di che furo. Che dato avrei, credetelo. Il capo contro il muro; E certo l'avrei dato.... Se il muro era ovattato. Cosi i miei di trascorsero Tra il mesto e l'avvilito (Però serbando incolume Il solito appetito) Sempre invocando l'ora Di rivederci ancora. O Dopo U soppressione del giornale umoristico di Venezia , Quel che \ si vede, e quel che non si vede, pubblicavasi il Pungolo di Milano cogli m •teati collaboratori fra i quali r Autore col pseudonimo di Fra^Fusina. Q— J TlHHMATO. — ?. II. IL RITORNO Anzi, se debbo dirvelo Lì proprio alla papale, Un ternetto in saccoccia Non mi farebbe male, Fossi pure costretto A star tre giorni in letto. Ma, lasciando gl'inutili Preamboli da un canto, Yoi non potete credere Quanto ho sofferto e pianto, E se mi parve eterno Lontan da voi l'inverno! Un disgraziato equivoco Di tanto mal radice, Fece montare in collera Mamma Ricamatrice, Ch'ebbe l'impertinenza Di mettermi in quiescenza. Tolto così all'assiduo Dolce consorzio vostro, Nel muto calamaio Lasciai seccar l'inchiostro E appesi ad un arpione Il vecchio colascione Né basta — in mezzo all'ansie Del mio dolor profondo Diedi un addio all'insipide Gioie di questo mondo; L'arpa spezzai del vate E mi conversi in frate. IL RITORNO «-^ Or che v'ho detto in qumdici sadici strofette (Anzi, contando meglio, Son proprio diciassette) In quanto duol discesi Questi sei lunghi mesi. V'annunzio che a rifondermi Di tutto il tempo perso, T'assorderò di chiacchiere Condite in prosa e in verso, Se però non mei vieta La prossima cometa. Anzi, su quest'ipotesi, In obbligo mi credo, Lettrici mie, di prendere Il mio formai congedo; E se a caso quaggiù Non ci vedremo più. Cercate almen di scegliere La celestial dimora, E allor forse è probabile Che ci vediamo ancora — Perchè all'inferno, il giuro. Non ci vò di sicuro. (Giugno (1857). -^--VA.VOXIM?'^*'**'"*- E di q«st^on rotasi 5on rbo sGgnaa Che Talwo gkrao Col bolij di'Mila&:» Tn pieno mi largia Ikscreto d'amnistia. All'inatteso annxmzio Tanta mi piovve in seno Ineflabil letizia Che fili per venir meno: Ma un dito di Bordò Tomommi in statu quo. (lì Bordò, lo testifico Per molti esperimenti, È un ottimo specifico Contro gli svenimenti: Specifico che eclissa Fin l'acqua di melissa.) Calmati alquanto gl'impeti Bella mia gioia prima, Del cor la piena effondere Volea in ottava rima; Ma per sbrigarsi presto Il più bel metro è questo. Ed io anelava ai garruli Colloqui del passato, Come ruccéllo all'aria, Come il destriero al prato, Come voi.... a un cachemire Di due tremila lire. — [TTl IL RITORNO 51 Chg Or che vTio detto in quindici S9dici strofette (Anzi, contando meglio, Son proprio diciassette) In quanto duol discesi Questi sei lunghi mesi. T'annunzio che a rifondermi Di tutto il tempo perso, V'assorderò di chiacchiere Condite in prosa e in verso, Se però non mei vieta La prossima cometa. Anzi, su quest'ipotesi, In obbligo mi credo. Lettrici mie, di prendere Il mio formai congedo ; E se a caso quaggiù Non ci vedremo più. Cercate almen di scegliere La celestial dimora, E allor forse è probabile Che ci vediamo ancora — Perchè all'inferno, il giuro. Non ci vò di sicuro. (Giugno (1857). -^'-vA.vaxiM?'^*'**''*- (n" 50 IL RITORNO " ^ E di quest'ora Testasi Non rho sognata invano ; Che Taltro giorno un foglio Col bollo di Milano Un pieno mi largia Decreto d'amnistia. All'inatteso annunzio Tanta mi piovve in seno IneflFabil letizia Che ftii per venir meno; Ma un dito di Bordò Tornommi in statu quo. (Il Bordò, lo testifico Per molti esperimenti, È un ottimo specifico Contro gli svenimenti: Specifico che eclissa Fin l'acqua di melissa.) Calmati alquanto gl'impeti Della mia gioia prima. Del cor la piena effondere Volea in ottava rima ; Ma per sbrigarsi presto Il più bel metro è questo. • Ed io anelava ai garruli Colloqui del passato, Come l'uccèllo all'aria, Come il destriero al prato, Come voi.... a un cachemire Di due tremila lire. — I I I I I I i 1 I I I I I i i i I I I ' I I m nrb IL RITORNO w cn^ Or che v'ho detto in quindici sadici strofette (Anzi, contando meglio, Son proprio diciassette) In quanto duol discesi Questi sei lunghi mesi, T'annunzio che a rifondermi Di tutto il tempo perso, T'assorderò di chiacchiere Condite in prosa e in verso. Se però non mei vieta La prossima cometa. Anzi, su quest'ipotesi, In obbligo mi credo, Lettrici mie, di prendere Il mio formai congedo; E se a caso quaggiù Non ci vedremo più. Cercate almen di scegliere La celestial dimora, E allor forse è probabile Che ci vediamo ancora — Perchè all'inferno, il giuro. Non ci vò di sicuro. (Qiugno (1857). •^'•''^^YfDdì^brf*^ — J r LA PROFUGA LOMBARDA 53 "^ LA PROFUGA LOMBARDA (Reminiscenze del J848J, a patria è caduta : — nel sangue dei forti Si è spenta la stella dell'itale sorti! madre, dal nembo di tanta tempesta Sottraggi la mesta — che langue cos\.... Corriamo tra i monti, voliamo sul mare, Fuggiamo le care — memorie d'un dì. terra d'Elvezia, sei grande e solenne Nel bianco tuo manto di neve perenne ! Sei grande nell'irta tua cerchia di manti, Nei rosei tramonti — d'un libero sol. Oh in grembo di questa natura gigante Vorria quest'errante — fermare il suo voi ! Ma sento la brezza del lago natio Che un bacio mi manda d'un ultimo addio ; Ma veggo le cime dei colli lombardi Chesotto i miei sguardi— s'ingemmandi fior... Oh! vieni, mia madre, conducimi altrove; Qui troppa mi piove — mestizia nel cor! Sei bella, o superba dei Doria cittade, Sei bella nell'ampie di marmo contrade! Del vasto tuo mare nell'onde t'ammiro, Mi piace il zaffiro — del caldo tuo ciel ; Ma più del tuo cielo, ma più del tuo mare Tomavanmi care — quell'alpi, quel gel! Almen fra que' monti talor mi venia Un qualche profumo dell'aura natia; Talor mi giungeva sull'ali del vento Il dolce concento de' nostri pastor.... Oh! vieni, mia madre, conducimi altrove; Qui troppa mi piove mestizia nel cor! Salute, gentile dell'Amo, ch'estolli La fronte ricinta de' cento tuoi colli! Col fervido volo dell'ape amorosa. Che in grembo alla rosa — va l'ali a serrar, Nel tuo di verzura bacino olezzante, patria di Dante, — discendo a posar. Ma sento di trombe guerriere uno squillo. Ma veggo da lunge l'estranio vessillo! Un turbin d'armati s'avanza, s'avanza.... "Non ha più fraganza — la terra dei fior! Oh! vieni, mia madre, conducimi altrove; Qui troppa mi piove — mestizia nel cor ! FI Là PROFUGA LOMBARDA Corriamo, corriamo! s'inalzano alfine Gom'ombre lontane le setto colline: Corriamo, corriamo! la patria perduta @^ Quest'equi saluta — nell'alma Città ! Vivrò nelle glorie dei giorni caduti; La patria dei Bruti — mia patria sarà. r 56 LA PROFUGA . OMBARDA Ma il cielo s'imbruna, ma s'alza repente Un nugolo scuro dal fosco occidente; Son piene le fosse di sangue e di morti.... La terra dei forti — è in ira al Signor ! Oh ! vieni, mia madre, conducimi altrove ; Qui troppa mi piove — mestizia nel cor ! Ahimè! dell'Italia nel triste orizzonte Non trova un guanciale la stanca mia fronte. Torniamo alla terra che vidi fanciulla, Torniamo alla culla — del primo soffrir ! Se un duolo perenne ci serba l'Eterno, Nel suolo paterno — men duro è il patir ! |L 1 iiiì'2 .%.- ■ ■■■■' : ' i^* m«T' lir:; UNt U POVERA LINA LA POVERA E^- ra Lina un' ingenua verginella Che ai sedici anni non toccava ancor; Era bionda, era pallida, era bella, Né ancor sapea che cosa fosse amor. -x^^E LINA LA POVERA ^ Fuor del modesto veroncel spandea I suoi fiori di neve un gelsomin, E nella verde sua prigion battea L'ali dorate un garrulo augellin. A queir umil finestra ogni mattina, • AUor che in rosa si tingeva il ciel, II bianco volto comparia di Lina Curva sull'ago e sul trapunto vel. E là, seduta de' suoi fiori accanto. Gorgheggiava la solita canzon. Mentre il leggiadro prigioniero intanto Ne ripetea sommessamente il suon. Della sua casta cameretta in fuori Lina altro mondo non sapea quaggiù: Col suo augel, col suo velo e co' suoi fiori Era felice e non chiedea di più. Pallida mammoletta della vita Nel suo profumo si chiudea cosi, E ignota al mondo la gentil romita Crescea nel gaudio de'solinghi dì. ta^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^ LINA LA POVERA ^ II. Ma un giorno sul lastrico del muto sentiero Risuona la zampa d'un bruno corsiero: — La bella fanciulla s'affaccia al veron, E incontra lo sguardo d'un fiero garzon. Al moto improvviso col braccio percosse Il vaso dei fiori; — quel vaso si mosse, E al bruno corsiero cascava sul crin Il fiore più bello del suo gelsomin. Del giovin signore sul nobile viso D'un gaudio segreto lampeggia il sorriso:' Un guardo al verone, un bacio a quel fior, E via di galoppo cavallo e signor. Quel giorno le usate carezze d'affetto Non ebbe da Lina l'afflitto augelletto, Che sempre volava l'errante pensier Al fiore caduto sul bruno corsier. Quel volto, quel guardo, quel bacio, quel flore Un palpito ignoto le destano in core; Se muove le ciglia, se corre al veron, Non vede che il volto del fiero garzon. Per tutta la notte sul molle origliero Lo scalpito intese del bruno corsiero, E sempre negli occhi e sempre nel cor Il bacio eloquente del giovin signor. LINA LA POVERA £ allora che ai tocchi dell'Ave Maria Le languide ciglia dischiuse la pia, £, quasi presaga d'un nuovo avvenir, Le bianche cortine discese ad aprir, TJn foglio intravide lo sguardo indovino À un ramo sospeso del suo gelsomino, Al ramo ove jeri spuntava quel fior Che il bacio raccolse del giovin signor. :?1 Et-- S Lina, tremando d'un fremito arcano, Al foglio piegato protese la mano ; L'azzurro suggello ne infranse, l'apri... U foglio amoroso diceva così: --^ |nl3 LINA LA POVERA — ^' Linai dalVora che nel tuo sembiante Avidamente il guardo mio fisai. Fin da quell'ora, da quel primo istante ly un' incognita fiamma arsi e tramai: Di quell'amor famxii, angiolo mio. Di che non s'am/i che la patria e Dio. • « Vieni, o fanciulla! alle tue bionde chiome Di^ gemme e d'or voglio comporre un serto ; Il suo cor, la sua m/jno ed il suo nom£ T'offre, Lina, in ginocchio il Conte Oberto : Vieni, fanciulla I la tua dote è il fiore Che custodito mi sta qui sul core. » — Ma Lina, la povera fanciulla inesperta, Del Conte rifiuta la splendida offerta; E sì che nei santi recessi del cor Le ardeva l'incenso d'un vergine amor. Ma un grido dell'anima — « il Grande, dioea, Non vive felice con donna plebea. Oh! s'egli men lieto dev'essere un dì. Ignori la fiamma che m'arde così. » — E Lina, la povera fanciulla amorosa, Al Conte negava la mano di sposa; Né meste parole, né lungo pregar Quel fiero e tenace consiglio mutar. Il fervido amante, che a vincer non vale L'ignota cagione del niego fatale, Siccome una face eh' è presso a morir, Languiva nell'ansie d'un vano desir. LINA LA POVERA 'J^ Ha un di che inatteso le giunse dappresso, Udì la fanciulla che in tuono sommesso, Col pianto negli occhi, diceva: — " Perchè, Perchè non è povero al pari di me ? » — f^ Un lampo sfavilla negli occhi del Conte, D'un raggio improvviso gli splende la fronte, E, còme sospinto da un grande pensier Che l'alma gl'inonda d'immenso piacer, — " Poiché non m'assenti la cara tua mano. Io fuggo, fanciulla, lontano lontano ; Ma come finora t'ho amata, cosi Io t'amerò sempre....- — le disse e spari. ^.JÉ UNA LA POVERA E Lina, ogni giorno seduta vicino Air ombra oaorosa ael suo gelsomino, Con lungo sospiro diceva tra sé; — « Perchè non è povero al pari di me ?» — .?'>/'>< ^ FUSINATO. — V. II. LINA LA POVEEIA in 1 1 — li ! luuieiil Manda 1 aura vespertina Entra il velo trasparente Della candida cortina ; E Ih santa giovinetta Al suo tacito balcon Ripensava, poveretta! All'amor del suo garzon. Ripensava al fior caduto Sovra il bruno corridore, A quel bacio, a quel rifiuto Che la tolse a tanto amore ; E una lagrima piangea Che qual perla del mittin Tra le foglie si perdea Del suo caro gelsomin. -^i LINA LA POVERA Mentre assorta quella mesta Nel pensier che la rapia, S'abbandona alla tempesta Deir accesa fantasia, Sulla porta dell'ostello, Come stanco dal cammin, Chiuso in lacero mantello Si sofferma un pellegrin. E alla bella pensierosa Le pupille sollevando: — « Un asilo, mia pietosa, Per la notte io vi domando: Son tre giorni che cammino, Che un asilo chiedo invan; Sono un povero tapino Senza tetto e senza pan. » Alla voce del viandante Che sì mesto le ragiona, La fanciulla palpitante Tremò in tutta la persona; E a quel suon che le favella D'un lontano sovvenir. La vietata porticella Scende rapida ad aprir. Il mantello arrovesciato. Sulla soglia a lei davante Del suo fido innamorato S'offre il pallido sembiante. — « mia Lina, il grande antico Ridomanda la tua man. Or ch'è un povero mendico Senza tetto e senza pan. » — ! narrò che un anno pria Le Bue terre avea venduto E per l'India si partif^ Dopo rultimo saluto; Ma che, stanco dell'esìlio, Que' paesi abbandonò E su ligure navilio Per r Italia s' imbarcò. Ila che giunto presso il porto Naufragava il bastimento E dall'onde quasi morto Ei fu tratto a salvamento: Ogni avere avea perduto, Ma restavagli quel fior Che sul crine era caduto Del suo bruno corridor. ^^.^E LINA LA POVERA Di letizia un senso arcano Provò Lina in queir istante, E posando la sua mano Nella man del fido amante: — « Tu sei povero, gran Dio! Giubilando ripetè: Vieni, io t'offro, Oberto mio. La mia mano e la mia fò. » — Il dì appresso, quando l'aria Bruna bruna si facea. Una chiesa solitaria Di due faci risplendea; Presso all'ara genuflessi Nel delirio dell'amor Benediva i due promessi Un ministro del Signor. In splendido vaso di gemma coQt«ito Solingo • rooduito — augii occhi le aU 11 ceipo odoroso di qtial gelaomin Che al bruno deatriero caden aul crìa. LINA LA POVERA IV. Il tempio si schiude : per Taria tranquilla La luce scintilla — di cento doppier — All'atrio davanti sta un cocchio dorato Da quattro tirato — nitrenti corsieri Di plausi e di viva festevole un suon Saluta la sposa del fiero garzon. Son giunti al pahizzo: per l'aule lucenti Di lieti concenti — si spande il fragori A festa vestite le ricche pareti, I molli tappeti — coperti di fior, E via per le stanze giocondo a veder Quell'ire e redire di paggi e staffier. Confusa, smarrita la povera Lina Sull'oro cammina gittato a' suoi pie, E ignara del nuovo destin che l'aspetta La pia giovinetta domanda i Perchè Quel cocchio, quei paggi, quei canti, quei fior, Quell'onda lucente di tanti tesor ? E Oberto traendo la bella smarrita, In stanza romita — l'adduce e colà In splendido vaso di gemme contesto Solingo e modesto — sugli occhi le sta II cespo odoroso di quel gelsomin Che al bruno destriero cadeva sul crin. In " 74 LINA LA POVERA ^^^^ — « L'amante che ordiva la fraude amorosa, Mia bella ritrosa, — bugiardo non fu: Del facile inganno non chiedo perdono,,. Il povero io sono — la ricca sei tu; Che tutti, mia Lina, del mondo i tesor Non valgono un solo tuo vezzo d'amor. » — E Lina la povera sui giorni del grande Di fresche ghirlande — l'olezzo versò: Per una di gau^lì catena infinita D'Oberto la vita — con essa volò; Che, anello d'affetti gentili quaggiù, Tra Povero e Ricco s'asside Virtù. LB DUE GEMELLE 'J^ LE DUE GEMELLE — ^g wz LE DUB OGUELLE ^ giovinette, se nel cor vi suona La santa voce del fraterno amor, Fatemi intorno una gentil corona E il verso udite dell'umil cantor. Eirè un'istoria che bambino appresi Sovra i ginocchi di mia madre un di, E come dalla sua bocca l' intesi, Fanciulle, a voi la narrerò cosi. — V'erano, non so dove, due sorelle Insiem cresciute della stessa età, E siccome nascevano gemelle, Eran pari di grazia e di beltà. LE DUE GEMELLE E fra di lor assomigliavan tanto Che non può mente umana immaginar; La madre istessa, che le avea daccanto, L'una coU'altra le solèa scambiar. AUor che usciano dalla santa Messa Avvolte entrambe nel lor bianco vel, Parean due foglie d'una rosa istessa, Parean due stelle dell' istesso cieL Tutto era eguale — il bruno delle chiome. L'arco del ciglio, il vergine pallor; Norina e Nella si dicean per nome, E il nome sol le distinguea tra lor, E queste care che all'istessa cuna Ebber comuni il latte e l'origlier, S'amavan tanto che il pensier dell'una Sempre sempre dell'altra era il pensier. Quando il sembiante sorridea di Nella, Norina anch'essa avea il sorriso in cor ; E se questa piangea, piangea pur quella, Lidivise nel gaudio e nel dolor. - « Tienmì, o sorella, vienini vicina (Un giorno a Nella dicea Norina) "Un gran segreto tengo sepolto Nella più ascosa parte del cor, E — proseguiva chinando il volto — E a te, mia Kella, noi dissi ancor. È circa un mese, dal mio balcone Scontrai lo sguardo d'un bel garzone: Ha l'occhio azzurro, la vita snella, Un portamento da cavalier ; E la sua imagìne, mia dolce Nella, L'ho sempre fissa nel mio pensier. m --eSg •BrO 80 LE DUE GEMELLE Ma donde ei venga, ma chi egli sia Io non so dirti, sorella mia. So ben che un giorno con mesto accento — Oh quanto io t'amo ! — V intesi dir ; Ed io gli offersi da quel momento Tutto il profumo de' miei sospir. » — Così Norina diceva, e intanto Sul ciglio a Nella spuntava il pianto. Quell'occhio azzurro l'aveva anch'essa Dal suo balcone scontrato un di, E quella dolce parola istessa Nel giovin sangue fremer sentì. L'estranio, illuso dal lor sembiante, Era d'entrambe rimjaso amante; E così all'una — T'amo! — dicea, Diceva all'altra — T'amerò ognor! Una soltanto d'amar credea, E due ne amava d'un solo amor. Povera Nella! ben essa in core Sentiva il fremito del primo amore. Ma da quel giorno che la sorella L'ascoso affetto le confidò, Più il desioso sguardo di Nella Nel bell'estranio non s'incontrò. Nella sua immensa pietà fraterna L'amor combatto che la governa; La cara imagine fugar s'ostina, Ma queir imagine ritorna ognor !.... Felice intanto vivea Norina Fra i casti gaudi d'un santo amor. W" LE DUB OBHBLLB @^- . Son promessi — il graa dì s'avvicina Che due cori sì a lungo sognar: Fra tre giorni la bella Norina Salirà col suo sposo all'aitar. Già trapunta è la serica vesta Che sul fianco ondeggiar le dovrà; Già la bianca ghirlanda s'appresta Che il lucente suo crin cingerà. ~-en§ rtUKATO. — V. II. 82 LE DUE GEMELLE Il SUO cuore sospira anelante Alla festa del prossimo dì.... Ma di Nella sul fosco sembiante Improvvisa una fiamma sali ; Una fiamma che i sensi le invade CoU'ambascia d'un nuovo dolor, Che per Possa trascorre e ricade Come un masso di piombo sul cor. Poveretta! una lotta sostenne Che niun labbro saprebbe ridir: Poveretta! in quest'ora solenne Cede al peso di tanto soffiìr. Il respiro le sibila in petto, Più frequente le palpita il cor: Già s'affrettan sul vergine letto Le tremanti sue membra a compor. E Norina con ansia pietosa, Fra le angoscie d'un dubbio fatai, Come un angiol custode si posa Della suora all' insonne guancial. Ma di larve in un vortice ardente La ragione dell'egra svanì; Nel delirio travolta è la mente, E il suo labbro favella così : « Yia da me quelle splendide faci, Yia quei baci — che m'ardono il cor! Se d'amor non mi parla quell'uno, Che nessuno — mi parli d'amor. :le due gemelle « Come Tape all'olezzo del fiore, Questo core — si volge a lui sol; Nel profumo lo sento dei campi, Dentro i lampi — lo veggo del sol. « Col suggello d'un ferro rovente Nella mente — il suo nome mi sta; Ma quel nome che tanto invocai Nessun mai — dal mio labbro Tudrà. « A te sola, che vegli al mio letto, Il diletto — suo nome vo'dir; Yienmi appresso, al mio labbro t'inchina, Che Norina — non l' abbia ad udir. « Oh ! non sappia che m'arde nel petto Quell'affetto — che anch'essa provò : Sul tuo serto di sposa, o Norina, Questa spina — non io gitterò. « De' tuoi gaudi non turbi la festa Questa mesta — che muore d'amor : Sol nei di che verranno, o sorella, La tua Nella — ricorda talor. — » LE DUE OBHBLLE IV. Cosi parlava — e tra le sparse chiomd ' Convulsamente la sua man spingea, Quasi a strappar quel formidato nome Che per l'ardente suo pensier correa; Così parlava — e la sorella intanto Muta e pensosa le sedeva accanto. '~^ É^- E declinando la sua fronte mesta SuU'origlier della gentil giacente, ri novissimi afl'etti una tempesta Ferver sentia nell'agitata mente; Poi surse, e bella d'un divin sorriso A lei si strinse e la baciò nel viso. « No, non morrai, dicea, povera Nella, No, non morrai di quest'amor si grande; A te sola, a te sola, o mia sorella, La mia veste, il mio vel, le mie ghirlande ; Il don mi fésti del tuo amore, ed io U sacrifizio ti farò del mio. » Al noto suon di que' soavi accenti Schiuse gli occhi la bella dolorosa, E in lei fissando le pupille ardenti : « Sei tu dunque, le disse, o mia pietosa Che dentro^all'alma travagliata e sola Mi piovi il gaudio^ella tua parola? « Quel che or dicesti io non saprei, ma tanto È il conforto che il tuo labbro m'addita, Che"]in questo cor dai patimenti affranto Ancor mi sento rifluir la vita: Stammi, sorella mia, stammi qui presso, E parla ognor come parlavi adesso. » Così dicendo, sul fraterno seno La bellissima testa abbandonava, E in un cielo d'amor lieto e sereno La sua redenta fantasia vagava: Mentre Norina santamente mesta Le carezzava la dormente testa. LE DUE GEMELLE É^ L'anno appresso alla Cappella Del domestico tempietto Si stringea la man di Nella Alla man del suo diletto: Era bella e parea lieta Quando all'ara s'accostò, Ma una lagrima segreta Dentro gli occhi le tremò; Che Norina all'ora istessa Chiusa anch'essa — nel suo vel, Il gran voto profferia Che l'unia — per sempre al cieL -^i UN'IMPRUDENZA UN' IMPRUDENZA (*) resto presto, o fida ancella, . Il mio serto più gentil; Delle vesti la più bella. Il più splendido monil : Della danza è presso l'ora. Né abbigliata io sono ancora! « Le mie treccie or via t'appresta Vagamente ad acconciar; La regina della festa Questa sera io vo' sembrar. Fammi bella, e in dono avrai Tutto quel che chiederai. (*) Questo tristo aYTeaimento succedeTa ia Napoli nel settembre del 1851. . UN' IMPRUDENZA « Entro il bruno delle chiome La ghirlanda intreccerò Che nel giorno del mio nome La mia madre mi donò; E qui in sen modesta e sola Una pallida viola. « Mi porrò la bianca vesta Che trapunsi di mia man ; La regina della festa Questa sera mi diran.... Presto presto, o fida ancella, Quella vesta cosi bella. « Il ventaglio della China, Guarda ben, non ti scordar; Della festa la regina Questa sera io vo' sembrar : Fammi bella, e in dono avrai Tutto quel che chiederai » Compiuto è il lavoro — raggiante nel viso Con guizzo improvviso — la vedi balzar, E via scivolando com' ombra fuggente, Nel vetro lucente — si corre a mirar. Sul mobile perno lo specchio compone E a terra depone — l'ardente doppier. Perchè dell'aerea sua veste di neve La piega più lieve — si possa veder. Va corri, fanciulla! la notte s'avanza. Già il suon della danza — preluder s'udì Va corri, fanciulla! t'attende la festa: Che importa la vesta? — sei bella cosi. Fu tai-da l'aita, 'a Bslia spiiù. UN ' IMPRUDENZA fi L'incauta non m'ode: colpeito anelante, Coir occhio vagante — sul velo fatai, Siccome farfalla che al lume s' aggira, , Si guarda, s'ammira — nell^ ampio cristal. Sorride, folleggia la bella imprudente, Ma al lembo cadente — del serico vel La fiamma soggetta s'appiglia ed ascende, Qual lampo che fende — l'azzurro del ciel, 'E su per le vesti la cinge, la fascia.... Un urlo d'ambascia — dal petto le uscì : E spinta dal nuovo terror che l'assale Yia via per le sale — gridando fuggì. L' incendio la segue ; la povera grama Pur fugge ed esclama : — Soccorso ! pietà ! Ma più ch'ella fugge, ma più ch'ella grida. La fiamma omicida — più viva si fa. Soccorso! soccorso! consunta è la veste, Ma il foco la investe — con nuovo furor ; Soccorso ! soccorso ! le manca la voce, Lo spasimo atroce — le lacera il cor. Soccorso ! soccorso !... si schiudon le porte.... XJn gi'ido di morte — per l'aria s'udì; Sull'orrida soglia col guardo travolto, Scomposta nel volto — la madre apparì. « Mia figlia, mia figUa! » Con impeto ardente La bella morente — si strinse e baciò.... Ma al bacio materno non torna la vita; Fu tarda l' aita — la figlia spirò !... [^~t3 94 UN ' DIPRUDENZA " "ni fanciulle, se piangeste Al destin di quella cara, Tra le danze, tra le feste Che la vita vi prepara, Vi stia sempre nel pensier Quello specchio e quel doppier. »^»- k. ^ ESTELLA E BICE I. Ili COliliEOIO ome due rose peregrine al mite Tepor cresciute d'un istesso Aprile, Alle sante d'un chiostro ombre romite Yivean congiunte d'un amor gentile Due giovinette vereconde e belle, D'età, di grazia e di virtù sorelle. Bice l'una diceasi e l'altra Estella; Questa, nobile e ricca, ad alto stato Chiamata un giorno nel gran mondo, e quella, D'onesto sì, ma povero casato, Dei vari studi e del genial lavoro Per l'incerto avvenir si fea tesoro. XJn pensiero concorde, una d'affetti Consonanza indivisa, un indistinto Vaticinio del cor, ne'vergin petti, Quasi per forza d'amoroso istinto. Svolsero il germe dell'affetto santo Che fa comuni l'allegrezza e il pianto. I' -eira ESTELLA E BICE "^ Sempre un solo il volere ed una sola Era la mente delle due bambine; Coltivavano insiem la stessa aiuola, All'ombra istessa si sedean vicine, E d'eguali scegliean forme e colori Le vesti, i nastri, gli ornamenti, i fiori. Crebber cosi negli anni, ed in quel caro Della vita consorzio a lor parca Che mai giunger dovesse il giorno amaro Che ricondurle al suol natio dovea.... Disgiunte ! esse che ognor nutrir la speme Di viver sempre e di morire insieme! Pur quel giorno s'appressa : — il lor sembiante Pensieroso ognor più fa manifesto Il profondo dolor di quell' istante Che scambiarsi dovran l'addio funesto; E un dì, più afflitta dell'usato, Estella Si fa presso alFamica e sì favella: — « Senti, mia Bice! s'avvicina l'ora Che dal chiosiro solingo alla paterna Nostra magion ritorneremo ancoi^a: Oh ! ma pria di partir, giuriam ch'eterna Porteremo con noi questa che in petto Da tant'anni serbiam fiamma d'affetto. « Tfascita illustre, ricco censo avito. Tutto mi pinge un avvenir giocondo: Pure io sento che in mezzo all'infinito Turbin di gioie che m'appresta il mondo. Sento che dirmi non potrò felice Se mi manchi l'amor della mia Bice. HTELI.A E aiClC i Io ti prometto che verrò sovente A visitarti al tuo natal paese ; Ti scriverò di spesso e lungamente, E tutto tutto ti iarò palese : Se con me non sarai siccome adesso. In ìmagìne almen t'avrò dappresso. --H® Fl-BMATO. — Voi II ESTELLA E BICE e Quella fida amistà che m^hai concessa È necessaria alla mia vita ormai. Deh! serbati per me sempre la stessa, E come or m'ami amami sempre, sai! Ed io ti giuro qui, dinanzi a Dio, Che ognora tu vivrai nel pensier mio. » — E s'abbracciar piangendo — e in quell'ardente Abbandon delle afflitte anime, ad una Voce entrambe giurar solennemente Che, per volger di tempo e di fortuna, Nella lor vita non avria mai fine Quell'amistade che le unia bambine. BSTBLLA B BIGB r~ IL I.» OBIiIO< — « Essa non m'ama pia! questo del core Mei dice ormai presentimento arcano : Memore io sì del mio primiero amore Cento volte le scrissi e sempre invano ; IndiflFerente al duolo che m'accora, Nò d^un sol detto mi conforta ancora! « Ne' suoi mille tripudi omai travolta, Il nostro rinnegò dolce passato. Nò si ricorda più quanto una volta Al cospetto di Dio m'avea giurato; E giurato m'avea ch'eternamente La mia mamoria le saria presente. » Io sì t'amava, e t'amo ancora. Estella, Con quella fede che t'avea promassa: Tu obliasti, infedel, la tua sorella, Ella no, che per te sempre ò la stessa, Nò v'ha istante che in cor non le ritorni La rimambranza da' passati giorni. 100 B8TELLA E BTCB WS « Ben profonda è Tangoscia e ben crudele Il disinganno che per te provai; Ma non temere che le mie querele Le tue gioie a turbar scendan più mai; Che a te ridir di mie amarezze il peso Il mio non lo consente animo oflFeso. tf Di me più dunque non udrai novella, Di me che data pur t'avrei la vita: Tra i pazzi gaudi del tuo mondo, Estella, Scorda pur questa povera romita; Ma se ti trovi un dì sola e infelice, Oh ! ti sovvenga allor della tua Bice. » — Così piangea deiramistade antica Le pie memorie e le recènti offese, Né mai più il nome dell'infida umica Dalle sue labbra proferir s'intese: Ma se il labbro tacca, vigile il core Tornava sempre al suo perduto amore. m. IiA BICOIVCIIilAZIOlHi: Avea Bice un fratel — giovine ancora, Eppur, ricco d'ingegno e di dottrina. Modestamente esercitava allora La medic'arte' alla città vicina. Ed ivi Estella i giorni suoi traea Poscia che il chiostro abbandonato avea. mL^ Si videro più volte, ed un'arcana Involontaria simpatia li accese: Ma ricca dessa e di sua stirpe vana, Quel palpito nascente al cor contese; Che il nome avito profanar le pare Nelle lusinghe d'un amor volgare. Il falso orgoglio, che gli affetti santi Turbò cosi di sua gentil natura E che tra i vacui della vita incanti Airantica amistà la fé' spergiura, Per conforme cagion l'orgoglio isiesso Dal nuovo amor la respingeva adesso. |n^ iOe ESTELLA E BICE Pur nel fondo delFanima l'altera Di quell'umile amor si compiacea ; E allora pur che alla volubil schiera De' suoi facili amanti sorridea, Non invocato le venia davante Dell'ignoto garzone il bel sembiante. Ed ei l'amava nel silenzio; e quando Dal suo palazzo la fanciulla uscia, Timidamente il suo cammin spiando, Da lontan le vegliate orme seguia, Felice assai se d'incontrar gli tocchi Un fuggente balen di quei begli occhi. Così passar più mesi: — essa, nel lieto Avvicendar di tante feste e tante, Dall'instabile cor qualche segreto Sospir mandava al peritoso amante ; Ed ei, timido sempre e riverente. D'invincibile ardea jQamma crescente. Ma inaspettata un di correr per cento Bocche s'intese la fatai novella Che un triste della sorte avvenimento Avea colpito il genitor d'Estolla, Che dalle pompe del suo eccelso stato In umile fortuna era piombato. Povera Estella! dall'infausto giorno Che la mutabil sorte l'abbandona, Tosto si vede scomparir d'intorno U fatuo stuolo che le fea corona, E crudelmente tramutarsi in spine Il roseo serto che cingeale il crine. ESTELLA E BICE Col rimorso neiralma allor rammenta Le caste gioie dell'età fuggita, E la sua stolta vanità lamenta E i giuri infranti e l'amistà tradita E quell'orgoglio che la fé' ritrosa Ad un amor che interrogar non osa. Il ricordo così dei dì che furo Più foschi ancora nel pensier le pinge Gl'incerti casi del lontan futuro; E un'assidua mestizia il cor le stringe, E a poco a poco, come fior reciso, Scolora e langue il suo leggiadro viso. Ben cento volte di fidar fu in forse All'amica lontana il suo dolore; Ma più viva alla mente le ricorse La rimembranza del passato errore, E sùbita vergogna la rattiene Di dirle la sua colpa e le sue pene. Ma Dio, mosso a pietà di quella mesta. Manda alfine un conforto al suo cordoglio ; E allor che nulla più a sperar le resta, Ecco le giunge inaspettato un fgglio, Che, messaggier di più felici eventi, Questi racchiude benedetti accenti: — Estella mia I se il vero mi figura Quest'ascosa del cor voce indovÌ7ia, Consolatrice nella tua sventura Sospirando mi chiami a te vicina. Né tu mi chiami invan; — la tua sorella. Sii tu lieta infelice, è sempre qicella. 104 mL^ ESTELLA E BICE Ella è pur sempre la fedel tua Bice Che le vicende del passato oblia, E al sen ti stringe, e quasi benedice Alla sorte fatai che ti colpia, Se per essa così le vien concesso U immenso gaudio di tornarti appresso. E forse Iddio del nostro amor si giova Com£ d'* occulta a* fini suoi cagione; E nelV istante che a sì dura prova La sconfidata tica virtù soppone. Forse negli alti suoi decreti, o cara, A te più lieto l'avvenir prepara. QuelV ignoto garzon che di lontano Avea costume di seguirti ognora, QuelV ignoto garzone è il mio germxxno. Che se un giorno famxiva ed or t'adora; Or che il lieto pensiero Vassecura Di lenir col suo am^or la tua sventura. E poi che un dolce sovvenir l'affida Che straniero al tuo cor non fu giammai. La $oave speranza a te lo guida Che l'affetto suo tanto accoglierai, E per mia bocca supplicando chiede D'offrirti la sica mano e la sua fede. — Come il foglio ebbe letto, un solo accento Il labbro suo non proferì, ma quanto Fosse immenso il gioir di quel momento Degli occhi suoi lo disvelava il pianto. Il pianto, questa non mendace e sola, Più della gioia che del duol, parola. E3TBLLA B BICB Corsi appena due dì, presso Tamica CoU'atteso f ratei Bice scendea: Nei nuovi amplessi l'amistade antica Bella del prisco suo vigor sorgea; Ed un'altra in quel di sacra promessa Strinse tre vite in una vita istessa. E fti vita d'amor, vita di care Ineffabili gioie — e la serena Felicità di quel modesto lare E l'indivisa di que'cor catena Mostrar che sempre non si cerca invano La vera pace nel consorzio umano. — giovinette, se la breve istoria Che v'ho narrata in disadorna rima Non vi giovi serbar nella memoria, Almen nel docil cor questo s'imprima: Che nel mondo sperar sempre non lice Ad ogni Estella una seconda Bice. GIAELLO L'OMICIDA Il fatto ò storico, e fu narrato aU*Autore da uno dei giudici che ti*at- taroDO quel famoso processo chiamato il processo d'Este, Una tenebrosa associazione di malfattori infestava le pi'oyincie del basso Veneto e del Mantovano. Arrestato, per una coraggiosa denunzia, il capo della banda (che noi chiamiamo Oiaello), il giorno appresso fu tix>vato appiccato ad nn albero il noto delatore. — SUnstrui la pi*ocedura, ma ogni sforzo della giustizia si i*ompeya contro Tostinato e indomabile silenzio delPimputato. — Dopo più mesi una giovine sorella ch*egli amava teneramente ottenne la grazia di poterlo visitare nel carcere. — Essa gli narrò come durante la prigionia di lui fosse stata amoreggiata e quindi chiesta in isposa da un giovane, il quale in pegno del suo amore e della sua fede le avea fatto dono d*un pi*ezioso e magnifico anello ch'essa portava al dito e di cui il ft*atello riconobbe subito l'occulta e scellerata provenienza. Il fidanzato era membro della terribile associazione, e quelPaDello era parte a lui toc- cata in una delle tante mÌ8tei*iose rapine. Spaventato dall'idea che la sua diletta divenisse la sposa d'un assassino, volle ad ogni costo sal- varla. — Rivelò tutto ai giudici e, traendo seco nella condanna a morto tutti i suoi complici, sottrasse cosi alle orribili nozze l'adorata sorella. — Questa la tela della presente Ballata. GIULIO L'OmClDt ..••S ■ Quello mi porM «pleadido anello—. Guarda, OiaelloI ■ ~^ — « >«#triiigete, stringete! le vostre catene Ili serrino i polsi, mi solchin le vene; H'uccida la fame, mi strazi la verga, Distillino sangue le ignude mie terga: Più muto del marmo che chiude Pavello, giudici, il labbro sarà di Giaello. • — E questa gittava superba disfida Ai giudici in volto Giael l'omicida. — Satellite iniquo d'iniqua masnada, Di sangue macchiava la nostra contrada ; Sul labbro dì tutti temuto, siccome L'artiglio d'un orso, correva il suo nome. ^-^É [ff" 110 GIAELLO L'OMICIDA "^ Congiunta in arcana terribile lega Fra l'ombre viveva la sozza congrega: Al villico inerme predavano il pane, Stendeano alle chiese le mani profane; Nei poveri ostelli, nell'auree magioni Metteano l'ugne que' cento ladroni. E invan delPumana giustizia la spada Vegliava sui passi dell'empia masnada: Un solo fra mille con libera voce Gridava assassino Giacilo il feroce; E il giorno che venne segnavasi a dito A un albero appeso quell'unico ardito. Ma carco di ferri, ma in ceppi costretto Vivea da quel giorno Giacilo il sospetto: Giustizia stringeva con mano secura Il nodo intricato dell'empia congiura. Ma muto e superbo sdegnava quel fiero Disciòr di quel nodo l'audace mistero. D'un mite perdono la certa promessa. Gli mormora invano : — Confessa, confessa ! — — Confessa, assassino ! — la fame gli grida; Gli fischia la verga: — confessa, omicida! — Ma il facil perdono, la sferza, la fame Non doman quell'alma sì grande e sì infame. Giù giù nel profondo d'un carcere oscuro Un'ampia catena sta infissa nel muro, E sotto la morsa dell'ultimo anello Il piede rinserra del fiero Giacilo.... Nell'andito buio, sull'uscio di ferro Il passo risuona del vigile sgherro. < 5] > stride sui ferrei cardini L'irrugginita porta. Dentro l'orrendo carcere Piove una luce smorta, E sulla muta soglia, Come su bruno aitar, Bianco e gentil fantasima Una fanciulla appar. gL~- -.e^g QUELLO L'OMICIDA D'un lampo il fosco ciglio Del prigìonier balena, Ed un giocondo fremito Scuote la sua catena : — « Oh mia sorella! oh lamico Della mia vita amor! » — E coll'ardenti braccia Se la chiudeva al cor. — « Se tu sapessi, o misera, Quanto di te pensai! Guarda, di gioia io lagrime, Io che non piansi mai.... Qui sulla nuda paglia Vieni a seder con me: È un paradiso il carcere, fiita, vicino a te. « Nel sanguinoso turbine Della fatai mia vita Santo e soave un palpito Io ti serbai, mia Rita: D'ogni nequizia il soffio Sovra il mio cor passò. Ma la tua cara imagine Contaminar non può. « Come in un ciel di tenebre Una romita stella. Solo fra tante infamie Splende il tuo amor, sorella! Oh, se un'estrema grazia Oso invocar dai ciel. Su te non scenda, o misera, L'onta del tuo fratel. » — OIABLLO r OMICIDA Così parlava, e in tenero Sumi di pietà la voce Moriva sull'indomito Labbro di quel feroce. Di quest'amor TefllÉIvio Casto serbò così Ei che tra il sangue e Torgie Ti:asse gl'infami dì. • Profonda, imperscrutabile É la natura umana. Che pur tra il fango germina Qualche virtude arcana. Come sull'irte roccie Cresce talvolta un fior, Anch'ei chiudea nell'anima Questo gentile amor. E l'uom, di Dio dimentico, Per la diletta suora Trovava in fondo all'anima Una preghiera ancora. Oh ! forse che quell'unica Prece dell'uom crudel Non trovi anch'essa un angelo Che la sollevi al ciel ! PUBIKATO — YoL II 8 pj ,.4 QUELLO L'OUXIDA :y^ st^ III. - " M'odi, fratello mio! pria di lasciarti Un grande arcano vo' confidarti : Amo, e tremendo m'arde nel core Questo mio amore. r E l'uom che vive nel mio pensiero A te, Giaello, non è straniero : Kei dì che furo lo vidi spesso A te dappresso. 1 Sopra la vasta fronte severa Tutta gli splende l'anima altera: E anch'esso, al pari di te, Giaello, È forte, è bello. ' Sull'orizzonte del viver mio Astro solingo lo pose Iddio, Perchè men fosca fosse la vita Della tua Rita. r OIAELLO rOMIGIDA « Nel dì che ignota, codarda accusa T'ha questa orrenda prigion dischiusa, Egli in quell'ora trista e solenne A me sen venne. • « Senti, mi disse, su te disceso È d'un' immensa sventura il peso : Sola nel m/)ndo, povera mesta, ^ Che far ti resta ? « Vieni, mia Rita, vieni, amor mio. Sarò tuo sposo dinanzi a Dio; Con me divisa, ti fia men dura La tua sciagura. » « E sì dicendo la man mi diede, E inviolabil pegno di fede Questo mi porse splendido anello.... Guarda, Giacilo! » - Al dubbio lume del career nero' Eitto sul cubito il prigioniero, Sovra la gemma gittando un guardo, Grida : — Riccardo ! Kiccardo! — e in suono d'orror la voce Freme sul labbro di quel feroce, E nell'ardente pupilla un truce Lampo riluce. Di quella gemma la turpe istoria Eatta gli corse per la memoria ; So vr' essa a note di sangue scritto Lesse un delitto : OIAELLO LX)MICIDA Ma tacque, e vinto l'urto dell' alnMt*, Sul fler sembiante tornò la calma : Indi alla cara suora rivolto, Baciolla in volto. — « Nel volger lungo della tua vita Di me talvolta sowiènti, o Eita; Io t'avrò sempre nel pensier mio.... Sorella, addio! » — Ed in quest'ultimo fraterno amplesso Spirava il breve gaudio concesso; Scorron le sbarre dietro il cancello.... Solo è Giacilo. Corse la notte, giunse il dimane; E quando il negro tozzo di pane All'ora usata recò la scolta, « Guardiano, ascolta! » Tuonò la voce dell'omicida: — « Dinanzi ai giudici tosto mi guida: Cose tremende, sol note a Dio, Svelar degg'io. » ~ Su per un ordine lungo di scale Giunse al cospetto del tribunale, E ciò che il labbro svelò del Aero, Restò mistero. • IL OIAELLO L*OMICIDA lY. Ha dopo sei giorni lontana lontana La grande campana — si sente echeggiar ; Del bruno torrione si schiude il cancello^ Di birri un drappello — comincia a sfilar; E l'un dopo Taltro fra i ceppi sonanti Fuor esce la torma dei cento briganti. Un'onda di plebe fremente, commossa S'incalza, s'ingrossa — per l'ampio sentier; S'accalca sui tetti, s'aflFoUa ai balconi.... Son cento i ladroni — dannati a cader! Correte, correte da tutte le bande, Non toma due volte spettacol si grande ! — Son giunti allo spalto: d'un mobile strato Di teste è selciato — l' infame terren : Dovunque è silenzio, silenzio profondo; E ritte sul fondo — d'un cielo sereu ^ A neri contorni si van disegnando Le travi giganti' del palco nefando, E là dell'orrendo patibolo al piede In atto si vede — d'immenso dolor Assisa una bianca fanciulla tremante^ Soflusa il sembiante — d' un freddo sudor ; É Eita, che al caro fratello perduto D'un ultimo sguardo riserba il saluto. ai ^ B lui coadannAti vibrando lo iguaitlo, U pallido volto sagiiti di Riccardo!». la r 120 GIABLLO L'OMICIDA ì Ila dei condannati la truce coorte Al luogo di morte — s'appressa e rista: Già il. boia è salito al palco eminente; La scure lucente — nel pugno gli sta ; E al funebre invito deirultimo appello Dal gruppo omicida s'avanza Giacilo. C!on passo securo le ripide scale Del palco fatale — l'altero montò ; Poi vòlto alla suora, con gioia infinita, — « T'ho salva, mia Rita » — dall'alto gridò; E sui condannati vibrando lo sguardo, Il pallido volto segnò di Riccardo !... /^^ IL PERDONO I I I Uà FBBDOHO fframmmilo di nocella) k 'odi, Lisetta il padre mio, tu il sai^ A ricche nozze mi volea serbata; E poi che invan piangendo io gli svelai Che ad altri ayea la fede mia giurata. Come amor disperato mi consiglia, Fuggendo abbandonai patria e famiglia. Al mio Giulio fui sposa — e il tanto amore Ch'egli in me pose, o mia diletta amica, A poco a poco mi piovea nel core Quasi Toblio della mia colpa antica. Che tutto quanto avea di caro al mondo Tutto perdeasi in questo amor profondo. Poveri entrambi, a rudi uffici omai L'aspro bisogno avea me pur costretto ; Però, tei giuro, io non rimpiansi mai Gli agi perduti del paterno tetto; Perchè, divisa col mio Giulio, anch'essa parca beli? la miseria istessa. ai IL PERDONO Ma da due giorni io sono madre^ e allora Che questo nome al mio pensier s'affaccia. Quella miseria ch'io sprezzai finora Come un orrido spettro il cor in'agghiaccia; v E fra le angoscie del bisogno estremo Non gi^ per Qie, per la mìa figlia io tremo. E poi, vedi! dal di che il cor s'apria Alle dolcezze del materno affetto, Più dolorosa al mio pensier venia La memoria del mio padre diletto; Che il suo lungo patire io l'argomento Dal tanto amor che per mia figlia io sento. Né mai vivo così siccome adesso Il rimorso provai deirabbaiid(MK) ; Pur sento in cor che s'io gli fossi appresso Negar non mi vorrebbe il suo perdono, Quand'io il chiedessi al suo ginocchio china Nel santo nome della mia bambina. A lui scriver volea, ma al desir mio Non corrispose questa debil mano Dal lungo morbo affatioata — ed io A te pensai, mia Lisa, ondo al lontaao Mio genitor la tua pietà descriva LoL quali pene la sua figlia or viva. Tu gli dirai che lungamente ho pianto, E con lagrime amare, il mio peccato; Ma digli ancor che in nobil core e santo Il mio povero amore ebbi locato, E se il mio Giulio conoscesse, oh allora Come mi amava mi amerebbe ancora. IL PERDONO Digli che sempre' col pensier ritorno Al (tesiderio del natal mio tetto, Che una sola non passa ora del giórno Senza ch^o pianga il suo perduto affetto, E ogni volta che prega il labbro mio, Sempre il suo nome raccomanda a^Dio. Digli di quante traversie fui segno E quanta angoscia mi pesò sul cuore ! Che se pur fermo in quell'antico sdegno. Onde punia quest'innocente amore, Ei mi rigetta dal paterno seno, La figlia accolga di sua figlia almeno. Digli che forse poco tempo ancora Quaggiù di vita mi sarà concesso, E s'è volere del Signor ch'io mora Senza la gioia del suo dolce amplesso, Comceda almeno a questa poveretta Di morir perdonata e benedetta. — » Così parlava dall'insonne letto La sventurata — e tra i singhiozzi e il pianto Botta le uscla dall'affannoso petto La commovente stia parola. Intanto La fida amica con trepida mano Vergava il foglio al genitor lontano. — Corser più giorni, né novella alcuna Quell'infelice a confortar giungea; Ma' mentre un giorno alla vegliata cuna Della sua figliuoletta ella sedea, Dello stemma paterno suggellato Un aureo stipo le venia recato. IL PERDONO Trepidando lo Schiuse, e scintillante Dei mille raggi che spandeva intomo Il gemmato mónil si vide innante , Onde sua madre s'adornava un giorno ; E appese all'orlo di quel ricco dono Queste sante parole : Io ti perdono I Mandò un grido di gioia, ed era il grido Del naufrago che in mezzo alla tempesta Ode una voce che gli accenna il lido : E quella fronte così bella e mesta. Dell'antica tristezza infranto il velo. Raggiava un gaudio che parea di cielo. E mentre in atto di pietà infinita Al generoso, padre benedia, E quegli accenti che le diér la vita De'suoi fervidi baci ricopria. S'apre la porta e, gioia immensa e nuova, In braccio al caro genitor si trova. Il giorno appresso dal vicin villaggio Meravigliando il popolo accorrea Al romor d'uno splendido equipaggio Che dall'erta collina discendea; E al veroncel della sua stanza assisa Il mesto sguardo lo seguia di Lisa, UN FALLO Quindiceiine verginella. Dolce, affàbile, cortese, Era Lena la pijk beUa Fra le belle del paese; Il divino Raffaello L'avria presa per modello. FVBIIIATO — Tol. II r 130 UN FALLO Quando ai giorni della festa Ritornava dalla Messa, Con quell'aria sì modesta Colla fronte sì dimessa, Le diceano al suo passaggio: — Guarda Tangiol.del villaggio! Kella madre che languia Sovra un letto di dolore Concentrava quella pia Tutti i palpiti del core; Altra cura fuor di questa Non aveva quella mesta. Ma fu invan che all'origliero Della cara sofferente Vegliò sempre il suo pensiero Colla fé dell'innocente: Quella fiera malattia La sua madre le rapia! Or che sola s'incammina Senza guida, senza aita, Questa povera tapina Kel sentiero della vita, Chi fla scudo all'orfanella , Giovin tanto e tanto bella? — Una sera, mentre uscia Dalla prossima chiesetta, Alla svolta d'una via La solinga giovinetta S'incontrò nell'occhio nero D'un leggiadro cavaliere. r ■-eira UN FALLO 131 " q] E il leggiadro cavaliero Che la bella avea scontrato, Si chiamava il conte Uggero Che dagli avi avea redato, Oltre il vasto suo retaggio, Anche il feudo del villaggio. Giunta a casa V innocente ^Giovinetta quella sera Eccitò distrattamente La sua solita preghiera. Il di dopo e Paltro appresso IncontroUo al luogo istesso. Così corse intorno a un mese, E di Lena a poco a poco Dentro Tanima s'accese Dell'amore il primo foco; Corse un mese, e fino allora Innocente ell'era ancora. Ma una notte che piovea, Ch'era il cielo nero nero. Una porta si schiudea Al leggiadro cavaliere... Dio! che notte fu mai quella Per la povera orfanella! F; :^ II. — « Perchè lasciarmi si mesta e al sola Senza il conforto d*una parola? Lo sai tu pure che notte e giorno Sospiro all'ora del tuo ritomo; IjO sai che foschi passan cosi In una vana lusinga i dì ! « Con volo assiduo, mio dolce Uggero, Ti segue l'ala del mio pensiero: Se tra le foglie mormora il vento, Del mio diletto la voce io sento; Nella più fulgida stella del ciel Lo sguardo io cerco del mio fedel. Ojis^'- UN FALLO 183 « Ben ei partendo m'avea promesso Che in capo a un mese l'avrei qui presso ; M'avea giurato dinanzi a Dio Che diverrebbe lo sposo mio, Che col profumo dei primi fior L'avrei di nuovo serrato al cor. << Ma tanti mesi passar finora, Ed il mio sposo non toma ancora! Eestava un fiore laggiù nell'orto, L'ultimo flore.... ma anch'esso è morto; È morto anch'esso l'ultimo fior, Ed il mio sposo non toma ancor. « Udisse almeno la voce mia! Ma niun sa dirmi dov'egli sia.... Lontano forse dal ciel natio Ei vive immemore dell'amor mio, Forse tra i gaudi d'un suol stranier Oblia la donna del suo pensier. « E questa misera, che l'ama tanto, Dovrà i suoi giomi condur nel pianto? Vedrà in un'onda d'eterni aftanni Il fior travolto de' suoi verd'anni? Ah no! una voce mi grida al cor Che dovrò un giorno vederlo ancor! » — Chiusa, nel suo silenzio, La sventurata Lena Tersa così dall'anima Del suo dolor la piena; E sul perduto gaudio Del tempo che fuggì Lenti, angosciosi passano, L'un dopo l'altro i dì. ih [n " 134 UN FALLO " ni Già sulla faccia pallida Della gentil tradita Illanguidia la vergine Freschezza della vita: — « Tieni, dicea la misera. Vieni, mio dolce amor! » — Non lo vedea mai giungere E l'aspettava ancor. Ma un dì per Taere insolita Intende un'armonia. Vede un festante popolo Formicolar per via; China la fronte mesta Per dimandar cos'è: Tutto il villaggio in festa E non sapea perchè. — Viva gli sposi ! — unanime TJn grido a lei risponde; E tra la folla, simile A nave in mezzo all'onde, Lento s'avanza un cocchio Kicco di gemme e d'or, E su quel cocchio piovono Benedizioni e fior. Povera Lena! ai morbidi Velluti abbandonata. Lieta vedea sorridere La bella fidanzata; Vedea al suo fianco assiso Un giovine signor.... Non lo scorgeva in viso, Pur le batteva il cor. < J.-x (n^ UN FALLO 135 " ^ Ma quando sulP estranio Fisse rarden;te sguardo E ravvisò l'immagine Del seduttor codardo, « Oh sposo mio! » neir impeto Del suo dolor gridò, E dal veron lanciandosi Giù nella via balzò! ;^ È presso la notte : — per T aere tranquillo Del bronzo lugubre — risuona lo squillo; E accese le faci — di pallida cera Procede dal tempio — lunghissima schiem. Ornato il levita — di candida stola, Per via mormorava — la santa parola, E l'eco lontano — lontan ripetea Il fiinebre canto — dell' Ora prò ea. --e3^ ) UN FALLO 137 ^ Baggiunta la soglia — dell' umil casetta, Concorde in ginocchio — la turba si getta.... Dal letto di morte — la povera Lena Udia salmeggiare — la pia cantilena. E chiuse le palme — sul petto anelante, Di lieve rossore — soffusa il sembiante, Al mistico cibo — le labbra porgea, Tra il canto iterato — dell' Ora prò ea. Osanna al Signore! — sull'egra pupilla La calma soave — del giusto sfavilla, E via dalla fronte — si pallida e bella I solchi del lungo — martirio cancella. Silenzio, silenzio! — la santa che muore L'estrema parola — confida al Signore ; Siccome d' un' arpa — percossa dal vento ) Sommesso sul labbro — le trema l'accento. ) — « Mio Dio, ti ringrazio! — di me ti rammenti ) Nell'ora suprema — de' miei patimenti : ] Mio Dio, ti ringrazio! davanti al tuo trono La rea che t' offese — ritrova perdono. « Con lagrime lunghe — ben io l'ho scontato II gaudio fugace — del primo peccato; Ma adesso nel bacio, — che Iddio mi consente, Io vergin ritorno — ritorno innocente. « Guardate là in alto! — che manto di stelle. Che lieto concento — d'ignote favelle! Del cielo dischiuse — già veggo le porte.... Qual vita di gaudi — mi serba la morte! r 138 UN FALLO ^ « Ma pria che a te voli — lo spirito mio Un altro perdono — ti chiedo, gran Dio ! Se il prego ti muove — di questa pentita, All'uomo perdona — che m'ebbe tradita! E qui più non disse: — la povera Lena Chinò sul guanciale — la fronte serena; E in grembo al Signore passava così La povera Lena — che tanto patì ! ♦♦^ LE DUE MIDRI U^Xalri ^alltì rive della Loira, Che qual serpe inargentata Solca via per cento miglia "Dna terra avventurata, Leva il capo allegra e bella Di Somùr la cittadella. Come gaie giovinette Che sì bagnano nell'onda, ■ Le sue candide casette Si distendon sulla sponda, Qua scoperte e là nascose Tra i vigneti e tra le rose. (*) Qnetlo l'atto con moventi a cii, Dui manicomio di Saumui-. e nella primaTera del 1E53 lo Pi-an- rara- r I I I iii LE DUE MADRI Sempre limpido è il suo cielo, Sempre azzurra la riviera, Non ha caldo, non ha gelo, È un'eterna primavera. Com'è allegra, com'è bella Di Somùr la cittadella! E lì presso alle sue mura, Quasi morbido guanciale. Col suo manto di verzura, CoU'ombria del suo viale. Lieve lieve si declina Il pendio d'una collina. Ma non tutto è paradiso Questo verde e questi fiori, Ma frammezzo a tanto riso Sta una casa di dolori, Ma di pazzi un Ospitale Sorge in fondo a quel viale. Nel silenzio delle notti. Sulle fosche ali del vento Cupi, flebili, interrotti S'odon suoni di lamento, Lieti canti e strane voci E bestemmie e risa atroci! Ed un acre desiderio. Che non osi interrogar, Quel di vivi cimiterio Ti sospinge a visitar. 1 " LE DUE MADRI 143 ì II. D'un bel tramonto sulP ultim' ora Una vezzosa giovin signora, Tenendo a mano la sua bambina, Salia la china. Avvolta in lievi candidi panni Era pur bella co' suoi cinque anni ! Fresca, ridente, leggiadra e snella, Era pur bella! Giù per le spalle siccome un'onda Piovea la chioma lucente e bionda; Co' provocanti sguardi vivaci Chiamava i baci. — « Mamma, diceale, ma questi matti Sapresti dirmi come son fatti? Oh, come e quanto vederli io bramo!— Mamma, corriamo. » Schiuso è il cancello: montan due scale, Son nel cortile dell'Ospitale. — L'ora del libero passeggio è questa, Ora di festa. . *«• '^■•^ v^"^ ^ [n " 144 LE DUE MADRI É^ L'un gravemente su e giù passeggia, Questi declama, quegli solfeggia, Chi salta e danza, chi al suol s'asside, Chi canta e ride. Là in fondo sola sopra una panca. Come da lungo travaglio stanca. Sparsa le chiome, bruna la gonna. Siede una donna. Giù per le guancie pallide tanto Scende un antico solco di pianto: Intorno intorno stupidi e tardi Volge gli sguardi. Leggiadro pegno d'un primo amore. Una bambina le die il Signore: Aveva un'aria di cherubino Quel suo visino! Come l'amava la sua fanciulla, Come vegliava presso la culla! Era un affetto santo e profondo, Era il suo mondo. Ma quella gemma della sua vita Da crudo morbo le fu rapita: Dal lungo affranta dolor perenne. Pazza divenne. E da cinque anni la poveretta Attende ancora la sua diletta, E chiede a tutti se Phan veduta La sua perduta. i ' ' t 1 ) ) ) } LE DUE MADRI Oh! chi ne vede l'ansia infinita Su quella squallida fronte scolpita, Sente nell'anima come un incanto Che sforza al pianto. E la cortese straniera anch'essa All'infelice madre s'appressa, Che irresistibile le scende al core Quel gran dolore. Sospesa al lembo della sua vesta La fanciullina sporge la testa, E colle lagrime negli occhi esclama: « Povera grama! ^f Poi dolcemente le si avvicina E colla timida bianca manina Carezza il bruno crine cadente Della demente. Scossa a quel tocco, la sventurata Sull'angioletto slancia un'occhiata, Ed uno strano lampo le brilla Nella pupilla. Poi fiso fiso la guarda in faccia, Manda uno strido, schiude le braccia, E con un impeto d'immenso affetto La serra al petto. — « Oh figlia, figlia! Come profonda È quest'ebbrezza che il cor m'inonda! Dio, nell'eccesso di tanta gioia, Deh, fa ch'io muoia! FUIIKATO — Voi. II 10 r > i 146 LK DUE MADRT ^ Ma, no morire! vivere adesso Che di trovarti mi fu concesso, Viverti sempre, sempre vicina. La mia bambina! fc Qui qui t'assidi su' miei ginocchi, Ch'io me li baci que'tuoi begli occhi, Ch'io lì dimentichi questi cinque anni D'orrendi affanni. « Dal dì fatale ch'io ti perdei. Non han più lagrime questi occhi miei; Ma tanta Testasi è di quest'ora Ch'io piango ancora. <^ Dimmi! ma dove, dove sei stata Tutti questi anni ch'io t'ho cercata? Forse tra i gaudi dell'altra vita Sei tu salita? ^ Ma invan su in cielo tu dimandavi I miei giocondi baci soavi; E all'amoroso materno amplesso Ritorni adesso. ^ Ritorni adesso, nò più, più mai Da queste braccia mi fuggirai: Morrei, lo sento, se un'altra volta Mi fossi tolta! — » r LE DUR MADRI 147 " g] HI. Così parlava — e allanelante petto La fanciulla stringea convulsamente, E nell'ebbrezza deirilluso affetto Scoccava i baci dalla bocca ardente: Era una febbre dMnflnito amore Che le struggea soavemente il core. E al suo collo la cara fanciulletta Colle piccole mani s'appendea E baciava essa pur la poveretta E un sorriso damor le sorridea; Né la giovine madre osava intanto Turbare il gaudio di quel breve incanto. Ma il cn dente crepuscol della sera Mnnda dal l'alto la sua luce smorta, E de' custodi la temuta schiera Deirinterna scalea schiude la porta; Che la campana dell'Ospizio appella La famiglia dei pazzi alla lor cella. E l'amabil straniera, a cui pur costa Struggere il gaudio di quel santo errore, Alla povera illusa alfin s'accosta. Dicendolo in pietoso atto d'amore: — . « Partir m'è forza e tòrti, o sventurata, Questa mia cara che ti fea beata. » — ) ^^^^^^^^^^^^^^^^^^ 148 LE DUE MADRI ^ Balzò in piedi la pazza, e con feroce Terror, stringendo la fanciulla al petto: — « Chi sei tu, le gridò con aspra voce, Che a turbar vieni il mio materno affetto? Non sai tu che né Satana né Dio Potrien rapirmi l'angioletto mio? « Lungi, lungi da me! guai chi s'attenti Un sol lembo toccar della sua vesta; Pria che strapparla alle mie braccia ardenti, Con queste man le spezzerò la testa; Ah! sì, ucciderla pria che un'altra volta Al mio amor disperato ella sia tolta. » — La preghiera non valse e la minaccia La tempesta a calmar della sua mente ; Che, sollevando colle scarne braccia Il fragil corpicciuol dell'innocente. Se le moveano incontro un pjisso solo, Facea sembiante di slanciarla al suolo. E sì fermo in quegli atti e in quegli accenti Il suo fiero proposito traluce, Ch'é pur d'uopo lasciarla e dagli eventi Della notte aspettar consiglio e luce; Ond'è che tutti s'appartàro, ed ella Corre colla fanciulla alla sua cella. E qui in fretta composto il letticciuolo, La sua cara bambina vi depone, E le pieghe del ruvido lenzuolo Con affannosa cura le dispone; Poi lietamente al capezza! s'asside, E la guarda e la bacia e le sorride. fT' LE DUE MADRI :^ Sotto la man, che molle l'accarezza, La fanciulla i suoi gi-andi occhi socchiude, Ed al sonno cedendo e alla stanchezza. In un dolce sopor tutta si chiude; Mentre la pozza che le stava accanto I suoi sonni blandia con questo canto: ' Dormi, fanciulla! al placido Guancial del tuo riposo Angiol custode vigila Il mio sguardo geloso ; E il bacio interminabile Che dal mio labbro cade, Come una dolce musica I sonni tuoi siiade. --^^ r 150 LE DUE MADRI ^ Dormi, fanciulla! e lascia ChMo possa ancor vederle E di mia mano astergere De' tuoi sudor le perle; Lascia che in tutta l'estasi D'un sovruman deliro Ancor m'inebri al tepido Soffio del tuo respiro. - Bella sei pur! la guancia Tinta è in color di rosa; Sovra le ignudo braccia La testolina posa, Ed in gentil disordine La fronte ti circonda La vaporosa aureola Della tua chioma biondo. ^ « Bella sei pur! nel placido Riposo del tuo volto Panni vedere un raggio Del paradiso accolto; E nel celeste gaudio Che dal sembiante ell'ondi, Veggo danzar le imagi ai De' sogni tuoi giocondi. ^ Sogna! ed in sogno l'inde Ti piova i suoi colori. Le stelle il loro raggio, Il lor profumo i fiori ; E la Beata Vergine ]\Iandi dal suo soggiorno Una corona d'angeli A carolarti intorno. ^ ) ) ? -^^g ^ rM [g" LE DLIO MADRI 151 °^ E qui fioca la voce si (acca Come il suon di lontana arpa {;:emente, E la stanca sua fronte ricadea Sul guancial della piccola dormente: È il sonno delle antiche ore tranquille Che torna ancora sulle sue pupille. La giovin madre tuitnquanta assortii In quel terror, ch'ogni terrore avanza, Dallo sportello della ferrea jjorta Spingea lo sguardo nelToscura stanza, E ogni moto, ogni bacio, ogni rumore } Era un jiugnal che le passava il core. ; Ma come tutto fu silenzio e solo / Dei due respiri s'udia la cadenza. Pian piano entra un custode, al Ictticciuolo > Sommessamente s'avvicina, e senza l Destar la fanciulletta che dormia, Rinchiude Tuscio e se la porta via. ì Cìut p«?r l'ampie echeggiò vòlte sonore, K l)a('ÌMndo il suo caro angiol perduto, ! Mise un grido la madre, un grido acuto ] > } 1 j Con gaudio immenso so Io chiude al eore, > ¥j co.Vi stretto alle materne l)rar'ci;i. ; / Via via {)el buio corridor si cacci;». ( > Ma, riscossa la jia/za al grirlo slrano, / Della sua solitudine s avvede; Gira intorno gli sgururli e da Iont:ino • Per lo spiraglio della jKjrta verje. Sotto la hwe «l'un fanal morente, liii veste bianrheggiar della fuggente. 152 LE DUE IdADRI XJn tremendo ruggì strido di rabbia, Di sangue s'iniettar gli occhi schizzanti, E colla schiuma alle livide labbia, Stese le braccia e si sospinse avanti ; Scrollò tre volte Tinvincibil porta Poi ricadde riversa, ed era morta! -IrVA. Y.'*' ■ I I ^^^^^^^^^ MALVINA r ^ -•^^«- /l^iil far dell'alba — oj?ni mattina ?^Alla fontana — scendca Malvina, E là, seduta — sovra la spondn, II picciol piede — fidava all'onda; II sole intanto — dall' orizzonte Il primo raggio — battealo in fronte. Avea Malvina — candido il viso > Siccome il calice — d'un fiordaliso, Azzurro l' occhio — siccome un cielo Che non ha nube — che non ha velo, E quando all'aura — il crin sciogliea, Piangente salice — ella parca. j 156 MALVINA Passa un estranio, — vede la bella, A lei s'accosta — e le favella: — « Vaga fanciulla, — se alcun ti vede Bagnar nell'onda — il picciol piede. Irresistibile — desio lo tocca Di porre un bacio — sulla tua bocca. » — — « Non soffermarti, — gentil straniero, Seguita seguita — il tuo sentiero ; Guai se mia madre — sa ch'io favello Alla fontana — con questo e quello ! Dunque ti prego, — stranier, va via. Voglio obbedire — la madre mia. » — — <* Ma quest'anello — questa lucente Gemma irraggiata — dal sol nascente, Per te la serbo, — ninfa vezzosa. Se non t'è grave — Tessermi sposa; Che sull'altare — dinanzi a Dio Esser tuo sposo, — bella, vogl'io. » — — « Averti a sposo — ben io vorria, Ma non vorrebbe — la madre mia. Non soffermarti, — gentil straniero. Seguita seguita — il tuo sentiero.... Giurato a Pietro — ho l'amor mio. Addio straniero, — per sempre addio ! » — « Ma per chi t'ama — di tanto amore. Crudele, un palpito — non ha il tuo core? » — Corre alla madre, — prega, ma invano ! — « Promessa a Pietro — hai la tua mano; A lui tien fede: — è la sventura Retaggio etemo — della spergiura. ^ — ^ [SH3 MALVINA 157 " nj Pianse Malvina — d'amaro pianto, Ma coir estranio — fuggiva intanto. Oh poveretta! — oh poveretta! La vecchia madre — l'ha maledetta; Fugge lontano, ma la sventura Pesa sul capo — della spergiura. Sparse le chiome, — lacero il piede, Chiese perdono, — chiese mercede; Risero in faccia — alla reietta.... La vecchia madre — Y ha maledetta ! Morta è Malvina !... — è la sventura Retaggio eterno — della spergiura! L'ORA DI RICREAZIONE M^- S om'è dolce quest'aura tranquilla ^Che il profumo deliba dei fior! Com'è bella quest'onda che brilla Sotto il raggio del sole che muor! Oh il tramonto d'autunno è pur vago Sullo specchio azzurrino d'un lago! Ma agr incanti che m'offre natura Or succede un incanto novel ; Ma m'invola più dolce una cura A quell'aura, a quell'onda, a quel del.... Come l'eco d'un bacio, m'arriva . De' miei fifrli li voce festiva. Or che al compito ingrato v'ha tolti L'invocalo tramonto del sol, Augelletti dal carcere sciolti, Voi battete più libero il voi; E sul labbro vi suona più lieto Il tripudio dell'alma segreto. ni ?JÌ1 L'ORA DI RICREAZIONE Sì volate agli usati trastulli. Come l'ape che vola a' suoi fior ; Ma, siccome quell'ape, o fanciulli, Trae dai fiori di mele un iesor, E a voi pure que' giochi infantili Sieno scuola d'affetti gentili. ^ É^- Se un augello nel nido scoprite, "Noi private ili sua libertà: Se alle cure materne il rapite, Quell'augello domani morrà! Così apprendano i vergini cuori La pietà degli umani dolori. 160 L'ORA DI RICREAZIONE Se dell'onda nel sen trasparente Voi correte le insidie a gittar, L'ingordigia del pesce imprudente Ch'ai vostr'amo si lascia adescar, A voi serva d'esempio e di scola Che un villano peccato è la gola. Quando il voi della lucciola errante Vi piacete per l'ombre inseg*uir, Voi vedrete quel raggio incostante Alla luce del giorno svanir: Quel fallace bagliore v'apprende Che ór non è tutto quello che splende. Ammirate l'industre formica, Che sull'erta d'un lungo cammin Va spingendo con tanta fatica La sua messe pel verno vicin? Queirindustre formica, o miei cari, La virtù del risparmio v'impari. E così quelle gioie innocenti Che vi schiude la ricca natura, Gitteranno le prime sementi D'un sapere che il tempo matura; Così avrete nei giochi infantili Una scuola d'affetti gentili. É^^ r ^ AD UNA MADRE femmes, si vous pouviez seulement entreToir quelques-unes dea merveillds promises à Tin- fluence maternelle , avec quel noble orgueil Yous entreriez dans cette carrière que la na- ture vous ouvre généreusement depuis tant de siècles ! AiME Martin Éducadon des méi'es des familles. rilustre giovinetta Io ti conobbi, e nel gentil pudore E nella dolce e schietta Soavità de' tuoi costumi, il core Per te lieti e ridenti Dell'avvenir mi profetò gli eventi. E così fu — in un nuovo Cerchio d'affetti e di memorie care Sposa e madre or ti trovo ; E quella che dal tuo volto traspare Aura di cielo è tanta, Che a te m'inchino come a cosa santa. FcTsmATo. — Voi. n 11 162 AD UNA MADRE Nella pace romita Del domestico lare, oh come bella Scorre per te la vita! Straniera al mondo che ti cerca e appella, Nelle tue gioie arcane Sorridi e passi sulle gioie umane. Per te altro non vuoi Che un sonùso, uno sguardo, una carezza De' figlioletti tuoi : In lor tu vivi, e per l'immensa ebbrezza Di quegringenui amplessi Tomi bambina a folleggiar con essi. Ad altre pur gli ardenti Tumulti dei teatri e delle danze, E le vesti lucenti E lo splendor delle dorate stanze ; A te la mite e pura Felicità di tue solinghe mura, E i garruli trastulli Misti air ire fugaci ed ai festosi Gridi dcMuoi fanciulli, E le assidue carezze e gli amorosi Colloqui, onde a' tuoi cari Quelle virtù, che ti fan bella, impari. Oh tu il comprendi il pio Ministero di madre e gli alti ulRcì Che t'ha commessi Iddio! Ah! sì, tu li comprendi, e l3ene(lici Airincarco soave Che ad altri forse è doloroso e grave. In" AD UNA MADRE 163 " q] Così lieta e serena Tu vedi intanto trasvolar la vita. Quasi jyentil catena Di santi fraudi e sempre nuovi ordita; Che nel materno amore Più crescon gli anni e meno invecchia il core. Specchio alle madri e spose, Sul cammin della tua vita ridento Profumeran le rose Perfln tra il gelo deiretà cadente; Poi che l'amor materno E fior che olezza anche nel cuor del verno. irf" >r --^-.w "v.^ ^w ^^ ■ Li PENTITA LA PENTITA cura è la volta del firmamento, Lontan lontano mormora il mar; Scroscia la pioggia, sibila il vento Tra le fessure dei (^asolar ; E in mezzo al mugghio della bufera Si mesce il gemito d'una preghiera. 1 È Lisa — curva sul capezzale Della sua vecchia madre che muor: La rimembranza •trista e fatale Del fallo antico le scende al cor; E nell'angoscia di quel momento Manda dall'anima questo lamento. — — « Madre, tu muori! e l'empia Che t'uccidea son io, Io che di preci inutili Alzo l'incenso a Dio; Oh! come un sogno orrendo Che pace non mi dà, Questo pensier tremendo i Fitto nel cor mi sta. \ r 166 LA PENTITA « Eppur t'amai! nei fremiti Della mia vita errante Là tua diletta imagine Sempre mi stava innante ; Fin tra le folli ebbrezze D'un forsennato amor, Madre, alle tue carezze Sempre tornava il cor. « Sempre qui in fondo all'anima, Sempre il tuo amor serbai. Come una pia reliquia Che non si hiscia mai : S'io non ti corsi accanto Poi che fuggia da te. Era il rossor soltanto Che m'infrenava il piò. « Al mio natal tugurio Fossi tornata allora! Forse, o innocente martire, Foi^e vivresti ancora; Che al bacio ricongiuirta Di chi t'amava ognor, No, non t'avria consunta L'ansia del tuo dolor. « Ma tardi io giunsi! a crescere L onta del fallo mio Questo crudel suppHzio Mi riserl)ava Iddio. Quando travolti! Tonda T'avea del tuo destin. Povera moribonda, Io ti tornai vicin. •^^ejg f LA PENTITA 167 « Oh! vorrei darti Tanima, Darti vorrei la vita Per prolungar d'un attimo La tua fatai partita: Pur d'alleviar il pondo, Cara, del tuo patir. Quanti ha tormenti il mondo Tutti vorrei sofTrir. « Deh! mi perdona, e un ultimo Sguardo mi dona almeno ; Lascia ch'io possa stringerti Anco una volta al seno ; Nell'infinito duolo Che Dio riserba a me. Questo conforto solo, Madre, io domando a te. Oh! se ti tocca il gemito Di questa tua pentita, madre, benedicimi Pria di lasciar la vita! Se mi sarà concesso Il tuo perdon così, Madre, il Signore anch'esso Perdonerammi un dì! j» — Languidamente l'agonizzante Dal suo guanciale la fronte alzò, E in lei fissando lo sguardo errante. Con moribonda voce esclamò : « Tu sei mia figlia, tua madre io sono. Io ti perdono.... io ti perdono !.... » ••.• 168 LA PENTITA E più non disse. — Sul corpo santo La disperata si lascia andar!.... Tutto è silenzio — s'ode soltanto Lontan lontano gemer il mare. Ed in lugubre suon di lamento Scrosciar la pioggia, stridere il vento!, ■^ ^ m SUOR ESTELLl I ♦ ■ 'i SUOR ESTEUA I. resto, presto, il mio cimiero, La mia lancia e la mia maglia, Non udite il suon guerriero, Che mi chiama alla battaglia? ' Degli Sforza gli stendardi Non vedete sventolar? Presto in sella, o miei gagliardi, Giunta ò l'ora di pugnar. » — Cosi parla — e fieramente Per le coltri trabalzando, Vibra intorno l'occhio ardente Quasi in cerca del suo brando, E dall'impeto travolto Del suo torbido pensier, Tutto fiamme si fa in volto U giacente cavalier. SUOR ESTKLLA Gran vassallo del Ducato, Conte Ubaldo Buondelmonti Cento laneie aveva armato Tra i soggetti de' suoi monti ; Ma sttl pian di Marignano Una palla lo colpì, E air Ospizio di Milano Si trovava da quel dì. — Sta una suora inginocchiata Del ferito accanto al letto. Che la benda insanguinata Gli compone sovra il petto ; E col guardo supplicante Ed in atto di dolor Eaccomanda il delirante Alla Madre del Signor. Come nuvola d'incenso Già salia di sfera in sfera Fino al trono dell'Immenso La sua fervida preghiera; E un'imagin più tranquilla E più limpido il pensier Sorridea nella pupilla Del feroce cavalier. — « Chi è quest'angiol che favella Presso il letto del morente, Che le tenebre scancella Onde avvolta avea la mente ? Ch'io lo vegga il tuo sorriso, Che il tuo labbro io l'oda ancor!... Per condurmi in paradiso T'ha mandato il tuo Signor? » — r SUOR ESTELLA 173 Sì dicendo, i languidi occhi Eivolgea sulla pietosa Che prostesa a' suoi ginocchi Rimirarlo più non osa; E sufTusa il bianco volto D'un angelico rossor, Sotto il guardo in lei rivolto Palpitar si sente il cor. Corse un mese — e sulla fronte, Nobil tanto e scolorita. Comparia di Buondelmonte Il sorriso della vita: Ma lo sguardo della pia Che vegliava al suo origlier, Più lo sguardo non fuggia Del risorto cavalier. Presso il letto del giacente, Kei silenzi del convento Avea sempre nella mente Il pensier del suo redento; E le rose del suo viso Si vedeano impallidir, E il suo vergine soriiso Convertirsi in un sospir. Pur tentava quella mesta Scongiurar mattina o sera De' suoi sensi la tempesta Col digiuno e la preghioni; E le luci al suol dimesse. Supplicava il suo Signor, la vita le togliesse quel fjxscino d'amor. 1 *** '»- X ■*•,/■-». - SUOR ESTKLLA IL Pallida un giorno più dell' usato, Di Conte Ubaldo s'asside allato; E il mesto labbro di suor Esiella Cosi favella: — <» Di Dio l'immensa grazia infinita La tua sanava mortai ferita: Alle tue terre fra qualche giorno Farai ritorno. ^ Or eh' è compiuta roi)ra solenne Che al tuo guanciale finor mi tenne, Ricevi, Ubaldo, dal labbro mio L'ultimo addio. « Dalla mia povera cella romita. Dove solinga vivrò la vila, A te col fervido voi della mente Verrò sovente. « Verrò a cercarti, dolce fratello, Là sotto gli archi del tuo castello, Delle battaglie sul campo stesso M'avrai dappresso. « Qui nel mio core, casto siccome Un pio ricordo, vivrà il tuo nome.... Una memoria santa e innocente Dio la consente. ^ r'>^ ^y ■>«'"*_''"XV'' Vide l'ombra d'un bel viso D'improvviso — tremolar. — leggiadra giovinetta, Che fai qui così soletta ? — Una voce susurrò : E nell'occhio astuto e nero Del bellissimo straniero Come un lampo balenò. La fanciulla a quell'inchiesta Lesta lesta — balzò in pie; E con voce un po' commossa Tutta rossa — a dir si fé': — Presso Tonda cristallina Vengo a corre ogni mattina Qualche bianco fiorellin; E pigliai gentil costume D'intrecciarlo nel volume Del nerissimo mio crin. — i < — Quel tuo crin che vago è tanto 5 Coll'incanto — d'un sol fior, \ Quanto meglio se raccolto Sul tuo volto — in rete d or ! — J [g° LA FONTANA MALEDETTA 207 " q| — Sarien certo assai più belli Stretti in oro i miei capelli ! Ma l'avverso mio destin Alla chioma rilucente Altro vezzo non consente Che un modesto florellin. Io son nata poveretta, Poveretta — ho da morir ! — E la voce, sì dicendo, Va morendo — in un sospir. — Vuoi far pago il tuo desio ? Il tuo labbro unisci al mio — Lo straniero ripetè — E sull'onda del tuo crine Oro e gemme senza fine, fanciulla, avrai da me; Ch'io son ricco, ricco assai. Quanto mai — nessuno fu : Dammi un bacio, e una regina, Venturina, — sarai tu. — E Trattando quel ribaldo Trasse fuori uno smeraldo E sul crin glielo appuntò. La fanciulla in timid'atto Chinò gli occhi e di soppiatto ' Giù nel Fonde si guardò. Con un ghigno mal represso Ei più presso — le si fé' : — Dammi un bacio, amor mio bello, E il gioiello — io cedo a te. — *LA FONTANA MALEDETTA Ella tacque — al forte petto Se la chiuse il maledetto E la bocca le baciò ; Ma quel bacio del peccato Come un ferro arroventato Sulle labbra le passò. La tradita ili empii faccia Delle braccia — fé' puntel ; Mise un grido, e il guardo errante Supplicante — Volse al del. !S1 rara- > > i y ? LA FONTANA MALEDETTA — Troppo tardi, o sconsigliata ! Al demonio ti sei data; Quel gioiello mia ti fe\ Alle fiamme dell'inferno Ti votasti in sempiterno.... Yieni dunque, vien con me. — E coU'ugna irrigidita Per la vita — la ghermì ; Spiccò un salto dalla sponda E nell'onda — scomparì. -— Da quel giorno non v'ha ardito > Che s'accosti a quella fonte ; Te la mostrano col dito, Poi si segnano la fronte , E ti narran che vien detta La Fontana maledetta. Fanciulle inesperte, la fosca leggenda I tristi del mondo perigli v'apprenda. La calma soave del cor non vi tenti, Di folli ornamenti — l'inane splendor : A vergine fronte ben meglio dell'oro S'addice il tesoro — d'un candido fior. j FUSIKATO. — VoL II U UNA VISITA AL CIMITERO fr—- ^ < ( ( e UNA VISITA AL CIMITERO Litto tace — solo l'aere Manda come un suon di pianto Tra i cipressi melanconici Del deserto camposanto; E una mesta pellegrina, Tutta chiusa in bruno vel, Singhiozzando s'avvicina Co' suoi figli al noto avel. E gettandosi in ginocchi Sulla zolla lagrimata, Lungamente i suoi begli occhi Tenne al ciel la sventurata; Poi, tremando nella voce. A' suoi figli ripetè: — « Fate il segno della croce E pi'eghiamo tutti e tre. r 212 UNA VISITA AL CIMITERO « Se nel cor vi resta ancora Sempre eguale, sempre istesso Il ricordo di quell'ora Ch'ei fu tolto al nostro amplesso, Sull'avello solitario Dell'estinto genitor Celebriam l' anniversario Del più santo fra i dolor. « De profundis ! nella requie Dei celesti godimenti L'alma eletta trovi il premio Dei sofferti ])atimenti; E quel gaudio che largito Sulla terra non gli fu, Duri eterno ed infinito Nei riposi di lassù. « Oh! il pensiero ch'ei ci attende Nell'amplesso del Signore Tempri il duolo che contende Ogni gioia al nostro core ; E la vita che ne avanza Meno triste fia così, Se ci resta la speranza D'abbracciarlo un altro dì. « De profundis ! su quest' urna Delle stelle il raggio cada; La sua lagrima notturna Le consenta la rugiada; Ed il vento della sera Al suo pie trasporti ognor La mestissima preghiera ^ Del più santo fra i dolor. À M^' UNA VISITA AL CIMITERO Luoo perpetua luceat ei ! Dormi in pace, amor mio solo, E dal ciel, dove tu sei. Prega requie al nostro duolo I Noi verremo col pensiero Sul tuo sasso a lagrimar.... Nostro tempio è il cimitero. La tua tomba il nostro alt^r! » Via pel vasto camposanto Si perdeva il suo lamento; E i'due cari a lei d'accanto In un pio raccoglimento Ripetevano con lei: Luce perpetua luceat ei ! 7" , % Wm ir^^t Wm <^^&^|^J^ Wm IL BUON OPERtlO r ) ) ) ) ) ) IL BUON OPERAIO ) — - v^i canti! si canti! se rude è il mestiere, È schietta la gioia del povero artiere. Un'aspra lo cinge di stenti catena, Ma l'alma è serena — ma libero è il cor: Finché non gli manca salute e lavoro. Non altro tesoro — domanda al Signor. « Che vai la corona di duca o di conte Se sotto il suo peso v' incurva la fronte ? Che importi! il nitrito di cento corsieri Se ai vostri origlieri — s'asside il dolor? Oh meglio dell'oro nell'arche ammucchiato Il pan guadagnato — col nostro sudor! « Voi, 3ori guardati da tepida serra, Un soflio di brezza vi frange, vi atterra; Noi, querele cresciute sull'erta del monte. Stendiamo la fronte — de' venti al furor.... Lavoro e salute, salute e lavoro. Non altrp tesoro — cerchiamo al Signor. < < < IL BUON OPERAIO Sfc- Se placido il sonno ne scende sul ciglio, Oh molle la paglia del nostro giaciglio! La sferza del sole ci anneri la faccia, S'aggelin le braccia — del verno al rigor, Se a tempra più salda la fibra s'indura, Se il sangue s'appura — nell'aspro lavor. Sia scarsa la mensa, sia lacero il saio, Saddoppian le forze del bravo operaio: Se misera e tarda gli vien la mercede, Non langue la fede — nel forte suo cor.... Lavoro e salute, salute e lavoro, È questo il tesoro — cli'ei chiede al Signor. » — E l'allegra canzon si diffondea Komoreggiando pei silenzi oscuri D'un angusto cortil che si schiudea Fra una cinta di squallidi abituri ; Ed a quel canto da lontan s'unia Il primo tocco dell'Avemmaria. Era Pietro, L'onesto muratore ) Che, compiuto il lavor della giornata. Con quella gioia che parte dal core Venia cantando la canzone usata, Mentre salia su per la lunga e ritta Scala di legno della sua soflitta. A (juella voce seminudo e scalzo Compariva sull'uscio un fancialletto, E batteva le mani e con un balzo S'arrampicava al muscoloso petto, Finché al suo collo strettamente avvolto Di mille baci gli copriva il volto. s ) \ > j IL BUON OPERAIO 217 E neir interno della stanza ardea Un lieto focherel sotto il camino, Mentre la giovin sposa distendea Sovra Fumile desco il bianco lino, Ed invitava il reduce marito Al parco cibo di sua man condito. ^Oh quanto in quella povera stanzetta Di modeste virtudi insegnamento ! Quanto amor, quanta fé' semplice e schietta. Che profumo di pace e di contento, E qual tesoro di leggiadri affetti Nel santuario di que' rozzi petti! Oh la dolce famiglia! oh la romita Felicità de' domestici lari! Altro mondo non cerchi ed altra vita Che il bacio della sposa e de' tuoi cari, E di gioia nessuna amor ti piglia Se non divisa colla tua famiglia. A voi, molli Nabàb, le profumate Sale e i divani delle ricche stanze. L'urto dei cocchi, le livree dorate, Le laute mense e le notturne danze: Oh ben altre le gioie e ben più vere Che il ciel comparte all'operoso artiere ! Una sera al teatro, una giornata Lietamente passata alla campagna. Un cibo estranio sulla mensa usata, Il don d'un vezzo alla gentil compagna; Ecco le sante voluttà del core Che all'onesto artigian serba il Signore. [n" 218 IL BUON OPERAIO E COSÌ Pietro — e poi che il poco argento Coir industre risparmio accumulato Gli assicurava il tetto e l'alimento, Nella sua ricca povertà beato Ringraziava il Signor per V infinito Ben che qui in terra gli venia largito. Ma quando al colmo d'ogni gioia umana Nuli' altro al mondo a desiar ti resta, È allor che l'alta Provvidenza arcana Le dure prove del dolor t'appresta: Tu sogni il gaudio del domani, e intanto Scende non visto alle tue porte il pianto. Era una sera dell' aprii — suonata Da gran tempo era già l'Avemmaria, E ad ogni istante con ansia affannata La giovin sposa al veroncello uscia, Ch'oltre l'usato è già trascorsa un'ora Ed il suo Pietro non ritorna ancora. — « Quanto tarda! — dicea — dacché fu mio La prima volta ch'io l'attendo è questa. Deh! fate per pietò, fote buon Dio! Che non s'avveri la voce funesta Che dentro il cor mi parla e m'impaura, ) GU sia successo una qualche sventura. » — \ l E il suo Giulietto, che obliato avoa \ La fame e il sonno, le si fea d'appresso E negli occhi guardandola dicea: « Non pianger, mamma! » e singhiozzava anch'esso; Che quel fosco presagio e quel dolore Aveano un eco nel suo vergin core. Èfev. \ h'a'iri dell'uscio a qu^l rumor ai caccia... IL BUON OPERAIO E quasi rispondesse a quel fatale D'infortunio vicin presentimento, Di passi un calpestio su per le scale . Muover s'intese misurato e lento, E una fioca salir voce gemente Qual di persona che mancar si sente. Fuori dell'uscio a quel rumor si caccia Con tutta l'ansia del primier sospetto La desolata donna — e fra le braccia Di due pietosi che il tenean sorretto, Ella si vede trasportar dinante Lo sposo insanguinato e agonizzante. Mise un acuto grido — ed il morente A quel grido si scosse e gli occhi schiuse ^ E lei conobbe, e poi che vanamente j Di chiamarla fé' prova, le socchiuse < Labbra sforzando ad un mesto sorriso, Pietosamente la guardò nel viso. Oh quanto amore in quello sguardo! oh quanto Più di lei che di sé dolor profondo! Ed ella tacque, e, soflbcando il pianto, Fe'guancial col suo seno al moribondo, Finché saliti sotto l'umil tetto. Dai due assistita, l'adagiò sul letto. E seppe allor come poche ore pria, Mentre per l'erte scale all'impalcato, D'im sorgente ediflzio egh salia, All'improvviso il pie gli era mancato, ^ E con orrendo spaventoso salto Kella soggetta via cadea dall'alto. IL BUON OPERAIO ^ Eran sùbito accorsi, e lui spirante Dal terrei! sanguinoso avean raccolto; Poi fasciate gli avean le membra infrante E, terso il sangue dal percosso volto, Sovra la fronte con tenaci bende Gli avean costrette due ferite orrende. Misera donna! a quell'istoria atroce Sentia spezzarsi dall'angoscia il core; E guardava il suo Piero e in tronca voce Convulsamente pregava il Signore, Che nell'immensa sua pietà infinita Le conservasse quella cara vita. Poi chiamava il suo Giulio e sei chiudea Quasi atterrita sul materno petto, E fra i rotti singulti gli dicea: — « Prega tu pure, o povero Giulietto, Tu che innocente sei, prega il Signore Che non ti tolga il padre tuo che muore. » • E pregarono insieme, e alla preghiera Di que'due dolorosi il ciel s'aprio. Che la parola di chi crede e spera Ascende sempre, e non invano, a Dio; Pregare insieme, e in quell'afflitta stanza Scese l'angiol ancor della speranza. In pochi giorni dal mortai periglio Era salvo il ferito, e accanto al letto La dolce sposa e il carezzevol figlio Le incessanti accogliean del lor diletto < Tenere inchieste, e gli narravan quanto j 1 Nei dì che furo avean soflerto e pianto. > r IL BUON OPERAIO — « Ed io pure, o mia povera Maria, Ei dicea sorridendo alla consorte; Ed io pure nelP ultima agonia A voi pensava; e non per me la morte, Per te soltanto mi mettea paura E per questa innocente creatura. « Ma del nembo che fu più ormai non resta Che qualche nuvoletta in lontananza, Ed il percosso mio vigor si desta Sotto il limpido sol della speranza; Ancora pochi giorni, e spariranno L'orme recenti del sofferto affanno. » — Ma così non avvenne. — Estenuato Da tanto sangue che perduto avea, La forte tempra del vigor passato Alla giovin natura invan chiedea: Più robusta è la quercia e più funeste Son le traccie del fulmin che la investe. Correano i giorni — e nelle vacue vene Incerta e tarda rifluia la vita: Ahi poveretti ! delle vostre pene L' ardua vicenda non è ancor compita. E pria che spunti una serena aurora. Oh come e quanto soffrirete ancora! Correano i giorni — e, della medie' arte Agli assidui precetti, il poco argento Con sì geloso amor messo da parte Più non bastava al pio divisamento, E la miseria col suo fosco aspetto S' avvicinava al desolato tetto. r 224 IL BUON OPERAIO E poi che notte e dì senza mai posa Sugli usati lavori invan scorrea L'ago già stanco della giovin sposa, Nell'estremo bisogno ella chiedea Un fuggitivo ed ultimo riparo A quanto avea di più leggiadro e caro. Ed al Monte portava una mattina Tutto tutto il suo povero tesoro ; I coralli, Panel, la mantellina E fin quel paio d'orecchini d'oro, ì Che il suo Pietro le die quel giorno istesso / Che di farla sua sposa avea promesiso. ì Lampo che guizza e muor, goccia caduta Nel vasto grembo d'ima sabbia ardente, Quest'ultima risorsa iva perduta Nella crudel necessità crescente, E spaventoso alOn giunse il dimane Che invan cercàro sovra il desco un pane. Col viso tra le palme, inginocchiata Appiè del letto l'infelice donna, Colla voce dal pianto soffocata Il Signor supplicava e la Madonna Che di qualche speranza un raggio solo Scendesse a confortarla in tanto duolo. E piangendo dicea: « Signore Iddio, E troppo orrenda l'agonia che soffro! Oh! se puote bastare il sangue mio A placar la vostr' ira, ed io ve l'ofìro ; Della mia vita il sacrifizio a(.*cetto, Ma salvate il mio Pietro e il mio Giuliette. ^ ai ._ Ilamini dui pun<>, die niarlv mi wntol FvsiSATO. — Voi. li. v: IL BUON OPERAIO 227 1 Così pregava — e il fanciuUino intanto, Cui il protratto digiun parea ben strano, A lievi passi le si fea d'accanto E lei toccando con timida mano: — « Mamma, diceale in lagrimoso accento, Dammi del pane, che morir mi sento. » — A quella voce di dolor, riscossa S'alza la donna; — un mpido consiglio Par le balzi dall'anima commossa; Getta un guardo allo sposo, un altro al figlio, L'ultimo al cielo, e senza dir parola Scende le scale frettolosa e sola. Di li a poco tornava, e bella in volto Del sacrificio che compiuto avea. Sciolte le pieghe del grembial raccolto. Le inattese vivande deponea, E con un guardo di sublime affetto Porgeva un bianco pane al suo Giulietto. Poi narrava siccome trascinata Da quel potente consiglier, la fame, Sull'angol d'una via s'era appostata, E al sorvenir di due giovani dame Tremando le appressava e non invano A lor stendea la supplichevol mano. Cosi dicendo, di rossor la faccia Le si copria; quand'ecco all'improvviso S'apre la porta, e al limitar s'affaccia Di due leggiadre signorine il viso, Che intenerite guardano alla pia Scena d'amor che innanzi a lor s'apria. f 228 IL BUON OPERAIO Quando la poveretta a lor rivolto L'umile prego avea del mendicante, Tanta angoscia era scritta in quel suo volto E sì fiooa la voce e sì tremante, Che nel fondo del cor le avea commosse Il desiderio di saper chi fosse. E in quel macero aspetto e in queiraccento Indovinando qualche gran sventura. Per un lungo di vie serpeggiamento L'avean seguita con assidua cura; Ed or chiedeanlo con gentil preghiera Lor confidasse la sua storia intera. Come il tristo racconto ebbero inteso E i lunghi affanni e la sofferta croce, D'infinità pietade il cor compreso. Le diér la mano, e con tenera voce: — « No che invano non fu, buona Maria, Che il ciel t'ha posto sulla nostra via. « — Oh! l'olocausto del tuo grande affetto È asceso al trono del Signore — e il giorno Non è lontano che nel vostro tetto Farà l'antica ilariià ritorno; E noi beate se ci assunse Iddio A quest'ufficio così dolce e pio. » — « — Oh siate benedetii, angioli santi, Che il ciel lasciaste per venir tra noi ! Dal profondo del cor con incessanti Voti, pietose, pregherem per voi, Perchè il Signor vi renda il tanto bene Che voi spargeste sulle nostre pene. » — ■ Ob, >iKta benedetti, angioli santi! |np° IL BUON OPERAIO 231 " "nj Così parlava col pianto negli occhi Dal suo Ietto il giacente, e la Maria Strettamente abbracciata ai lor ginocchi Coi singhiozzi del cor le benedia, Mentre in un canto il buon Giuliette anch'esso Lagrimava e rideva al tempo istesso. > Da quell'istante il giornalier soccorso > D'eletti cibi a lor venia fornito, i E un altro mese ancor non era corso Che finalmente il povero ferito, Superata la lunga malattia, ) Ricuperava il suo vigor di pria. Da quell'aspro d'affanni esperimento Così al primo tornar gaudio perduto; / Ed in memoria del felice evento } Che per sì strana via s'era compiuto. Ogni mattina la pietosa donna Accendea^un lumicino alla Madonna. ' Poi, giungendo le mani al suo Giulietto, ; Devotamente gì' insegnava come > Serbar dovesse con perenne affette ■ Delle due sante protettrici il nome, \ E Iddio pregasse di versar su loro l Delle sue grazie l' immortai tesoro. ^ / ) E così avvenne. — A quelle due pietese Il ciel dischiuse un avvenir giocondo: Madri felici e fortunate spose Altro che gioie non trovar nel mondo. Oh! l'obolo versate al poverette Rende cento per uno — Iddio l'ha detto. • — IL CJTTIVO OPERÀIO IL CATTIVO OPERAIO 1. 'eviamo, beviamo! nei colmi bicchieri S'aflFoghi la noia dei foschi pensieri : Beviamo, beviamo ! tra i nappi spumanti ITaurora si canti — del dì che verrà: Dal lungo sudore si terga la fronte, Un nuovo orizzonte — dinanzi ci sta! « Dovremo pur sempre, venduti facchini, Al giogo incurvarci di pochi quattrini ? Al prezzo sudato d'un magro alimento La pioggia ed il vento — dovremo sfidar, E, Lazzari etemi del lauto convito, Ai ricchi imbandito — un^ pane invocar ? « Abbasso il codardo che docile servo Al cenno s'inchina del ricco protervo; Che, pago vilmente di scarsa mercede. Rinnega la fede — del nostro avvenir; E questa, che tutti gli umani livella. Dottrina novella — non osa bandir! r 234 IL CATTIVO OPERAIO « Che vai se al domani ci manca il lavoro ? Le borse dei ricchi traboccano d'oro; Col pugno ristretto sui nostri coltelli - Ai chiusi cancelli — corriamo a picchiar, E Pugne tremanti di questi Epuloni Gii avari cordoni — dovranno slacciar. « Saran per noi soli la fame ed il gelo ? Siam tutti fratelli! l'ha detto il Vangelo. Soltanto la terra fla preda d'alcuni, Se a tutti comuni — son l'aria ed il ciel ? Evviva l'aurora dei tempi novelli, Siam tutti fratelli — l'ha detto il Vangai! E cinque voci avvinazzate e grosse L'eco spandean dell' infernal concento; E il cozzo dei bicchieri e le percosse Tavole e il cupo mugolar del vento, Che al mal fermo balcon venia battendo, La cadenza seguian del canto orrendo. Lunghi buffi di fumo uscian di bocca A que' cinque briachi — a lor dinante Spumeggiava sul desco un'ampia brocca Di recente liquor — un gocciolante Lucignolo nel mezzo, e da una parte Giaceva un mazzo di sucide carte. Era l'orgia del vizio, era l'insano Abbrutimento di chi a capo chino Nel mar si tuffa d'ogni lezzo umano: Nell'arse fauci gorgogliava il vino, E le orrende bestemmie e i motti atroci Rendean più rauche quelle rauche voci. \ Da lol ft-ft i cinque al baceaukl nabn'to Cnpamanta pensoso s'assidea. IL CATTIVO OPERAIO Un sol fra i cinque al baccanal nefando Cupamente pensoso s'assidea: Col volto tra le mani a quando a quando Dall'imo petto un sospiro mettea, E il truce suon della canzone oscena Sul labbro inconscio mormorava appena ; Che involontario il suo pensier redia Della deserta famiglinola accanto E sul paterno cor piombar sentia Del suo innocente figliuoletto il pianto, Ed il mite consiglio e l'amorosa Rampogna udia della sua dolce sposa. Perch'ei l'amava la sua casa, e cento E mille volte nel suo cor fermato Il tenace egli avea proponimento Di mutar vita e, del lavoro usato Fattosi schermo al mal costume e freno, Povero sì, ma viver lieto almeno. Invan, che, schiavo al turpe vezzo e ai pravi De' suoi tristi compagni eccitamenti, In notturni stravizzi ed ozi ignavi Gli onesti seppellia divisamenti ; E sul pendio del vizio è breve il tratto Che travolge alla colpa ed al misfatto. Pure al vicino approssimar dell'ora Che all'infame disegno era fissata. In fondo all'alma gli parlava ancora La rimembranza dell'età passata, E gli parea che in dolce atto d'amore Sì la sua Agnese gli tentasse il core: r 238 IL CATTIVO OPERAIO ^ « Carlo, che fai? dunque così mutato Hai tu quel cor eh' era pur buono tanto, Che dal sentiero in cui ti sei gittate D'Agnese tua non ti ritragga il pianto? Oh! Carlo, Carlo mio, dunque non vedi L'orrendo abisso che ti è schiuso ai piedi ? « Forse che al figlio tuo lasciar vorrai Un retaggio d'infamia e di rossore? Oh! per l'amor che sempre ti portai, Non voler darmi un sì fiero dolore, Oh! non voler con nuove colpe ch'io Imprechi all'ora che ti dissi mio. « Pensaci, o Carlo, e fin che tempo è ancora. Scongiura il nembo che ti rugge intomo : Fuggi l'ozio e gli abbietti usi e lavora, E sarai lieto come il fosti un giorno: Che all'onesto artigian, tu ben lo sai. Pane e lavor non è negato mai. « E quando pure alle tue forti braccia Mancar dovesse il giomalier sostegno, E tu, mio Carlo, alla miseria in faccia. Di te stesso e di me serbati degno: Meglio che viver disonesto e infame. Oh! meglio, Carlo mio, morir di fame. ^ — Al dolce suon di quegli accenti arcani Che dentro la commossa alma scendea. Già piegava il pentito e fra le mani La sua pallida fronte nascondea. Quasi a celar T involontaria stilla Che traboccava dalla sua pupilla. IL CATTIVO OPERAIO 239 1 Ma allor che la pietà de' suoi diletti Del cor scendeagli a ricercar la via E dal tumulto di più dolci affetti Sorger la voce del rimorso udia, Gli scoppiò neir orecchio all'improvviso De' suoi compagni lo schernevol riso: — « Olà, Carlo, che fai? forse che il vino Annacquar colle lagrime ci vuoi? che ti sogni di farci il bambino In tal luogo, a quest' ora, in mezzo a noi ? Eh via, vergogna. ! alle donnette il pianto, A noi la tazza e l'allegria soltanto. ^ Bevi, Carlo, perdio! bevi e nel vino Il buon umor ravviva e l'ardimento : Mezzanotte è suonata, e già vicino Dell'audace ma certa opra è il momento. Su via, Carlo, il bicchier! bevi e domane La tua famiglia avrà per sempre un pane. » — — « Ebben si beva! ^ — e, l'incresciosa voce A soffocar delFultimo rimorso. Levò la tazza e con ghigno feroce Lo spumante liquor votò d'un sorso. Gridando: — Viva la notturna impresa, Viva il buon vino e chi ne fa la spesa! « Su presto all'opra! Sotto lieti auspici La sì a lungo invocata ora s'accosta: La fortuna è con noi, guardate amici! (E sì dicendo spalancò l'imposta) Perchò tutto sorrida al nostro intento Complici abbiam la notte nera e il vento. »» — IL CATTIVO OPERAIO Col volto intanto sovra il petto chino, Com'uom che posi addormentato e stanco, • Al pallido chiaror d'un lumicino L'oste sedeva al solitatìo banco E colle braccia sovra il sen conserte. Gli occhi avea chiusi, ma l'orecchie aperte. — Di lì a poco pei lunghi avvolgimenti Di stradicciuole taciturne e scure Alla luce dei lampi intermittenti Si vedeano sfilar cinque figure; E dietro a lor, ma per diversa via. Un altro passo risuonar s'udia. M^ IL CATTIVO OPERAIO '■■'»-. ■->./"'^^'"^. --^ IL — « E ancor non giunge! è ver, detto m'avea Che tornerebbe a tarda ora soltanto : E aspettando vegliai; — pur non credea Forza mi fosse d'aspettarlo tanto ! Corsa è tutta la notte, e già da un'ora Spuntata è l'alba, ed ei non giunge ancora. « Oh non era cosi nei dì felici Del nostro primo e benedetto amore! Il reo contatto de' corrotti amici Filtrò il veleno nel suo facil core, E quel core che un giorno era pur mio. Or non sa darmi che disprezzo e oblio. l « AUor, se uscia al lavoro giornaliero, \ Perchè sola io restava, egli era mesto, < E perchè m'era appresso il giorno intero. Ai dì festivi benedia per questo; Oh ma il mio Carlo non è più lo stesso! Quanto mi amava allor, mi sfugge adesso. « Eppur sentimi, Carlo! io ti perdono Tutto il dolor del tuo perduto affetto, Purché non gravi di tanto abbandono Questo povero nostro figliuoletto. Che, nato solo alla miseria e al pianto, Nell'innocenza sua t'ama pur tanto. ( s PUBWATO. — Voi. II. 16 242 IL CATTIVO OPERATO " *n] « Guarda come la lame e il crudo inverno La sua fragil salute han logorato! Oh ! pensa, Carlo, pensa che l'Eterno Non ha perdono per sì gran peccato: Quando del figlio tuo pietà non hai, Dimmi, dal ciel puoi tu sperarla mai ? » Così parlava l'infelice — e come Le sembrasse vederlo a sé vicino, Teneramente lo chiamava a nome, E per l'immenso amor del suo bambino E pei ricordi dell'età fuggita Piangendo il supplicava a mutar vita. Poveretta ! e non sai quale s'addensa Turbine di dolor sulla tua testa, Non sai l'angoscia disperata, immensa Che ancor nel mondo a sopportar ti resta! Odi quel passo ? ah non gioir ! ma implora Da Dio la morte pria ch'ei torni ancora, — E la porta si schiude, e dalle soglie Precipitando nell'oscura stanza, Come un fantasma, all'atterrita moglie Di Carlo appar l'orribile sembianza; Travolto il guardo, irto i capelli e intriso Di chiazze sanguinose e mani e viso. Gettò un grido la donna, un grido orrendo Di spavento e dolor. — Carlo, mio Carlo, Che t'avvenne? rispondi! — e sì dicendo Trepidante moveva ad incontrarlo. — Tu sei ferito, non è ver?... gran Dio! Sei tu proprio ferito, o Carlo mio? » — .... Carlo, mìo Cirio. Che t'aTTenuet riapoD'Jil.... JD IL CATTIVO OPERAIO 245 ì - « Non accostarti, o santa creatura, A quest'iniquo che così tolFese. Questo sangue che il mio volto sfigura, Sangue non è delle mie vene, Agnese! Oh ! se così non fosse, a te d'appresso Potrei tremar siccome tremo adesso? ^ Tu inorridisci, Agnese, e ancor non sai Come sia grande il mio delitto e quanto , [ Poi che noto ti fla, maledirai \ A quest'infame che tu amasti tanto, J A quest'infame che in sì turpe oblio Pose il suo onor, la sua famiglia e Dio ! « Ben cento volte me l'avevi detto Ch'io correa ciecamente al precipizio; Ma più che il grido del tuo santo affetto Mi trascinò la voluttà del vizio. E diventar potei ladro e assassino Con quest'angiol custode a me vicino! » — — « Oh taci, Carlo, tu mi fai paura! Ladro e assassino tu ? no, non è vero ; Creder non posso a sì orrenda sciagura, Che all'onta ti consacra e al vitupero; Tutto, tutto, mio Carlo, esser potrai. Ma ladro ed assassino ? ah no, no, mai ! » — — « Più che lo stesso mio rimorso, Agnese, La tua credula fé mi spezza il core ; Sì, l'ignominia sul mio capo scese, Né lavarla potrebbe il tuo dolore! Pur morirò men triste e disperato Se il tuo perdon non mi vorrai negato. ^ i < IL CATTIVO OPERAIO « Non io la facil tua pietade intendo A difesa invocar del mio delitto ; Pur ti dirò che nel mio cor tremendo Tra la colpa e il dover surse il conflitto, E se alfin nella lotta io caddi vinto L'ebbrezza fu, non il malvagio istinto. « Allorquando all'infame opra fui tratto. Ogni fll di ragione avea perduto, Né compresi l'orror del mio misfatto Che allor soltanto ch'io l'avea compiuto, / Allor che il sangue di quell'uom trafitto Mi spruzzò sulla fronte il mio delitto. « Sparve l'ebbrezza allor, sparve la benda Che gli occhi m'offuscò dell'intelletto; E poi che tutta misurai l'orrenda Profondità del fallo mio, sul petto Del fumante pugnai la punta adersi... Ma di te mi sovvenni e non l' immersi. - ^g « Appena la nefanda opra compita, I Si spalanca la porta e: — Siam perduti, < Grida ansante un de' nostri ; ad ogni uscita ( È chiuso il varco ed or eh' il può s'aiuti ! — { E per l'attigua stanza a concitati SL- Passi un folto irrompea stuolo d'armati. Un solo istmte ancora, ed ogni via ^ Di salvezza e di fu ora era omai tolta. Poco doleami di morir, ma pria 10 volea rivederti anco una volta ; J E mi gettai dalla finestra e corsi 11 mio obbrobrio a svelarti e i miei rimorsi. r IL CATTIVO OPERAIO « So che inutile e tardo è il pentimento Che la vigil coscienza or m'affatica; Pur nel segreto del mio core io sento Che se tu mi perdoni, o dolce amica, Men grave scenderà sul capo mio La giustizia degli uomini e di Dio. « Oh! non per me, che tanta infamia rese Degno sol di disprezzo e d'abbandono. Ma per l'amor del figlio nostro, Agnese, i La tua pietade imploro e il tuo perdono; ) Per me la morte sarà bella ancora, l Se non vorrai che disperato io mora. » — Così parlava, e con ansia affannosa Si stringea singhiozzando a' suoi ginocchi ; Ed ella si chinava e una pietosa Onda di pianto le cadea dagli occhi. Dagli occhi le cadea sul capo amato Quasi l'onta a lavar del suo peccato. — « Sì, ti perdono! il mio ribrezzo han vinto I tuoi fieri rimorsi e il tuo dolore : Oh! quando pur dal seno mio respinto Io ti volessi, noi vorrebbe il core; Sorgi, infelice, abbracciami e com'io l T'ho perdonato, ti perdoni Iddio. » — — « Che tu sia benedetta! ora io l'accetto Come una santa espìazion la morte: Poi che la tua pietà non m'ha reietto, La guardo in faccia rassegnato e forte; Che se pur ducimi di morir, gli è solo Per lasciar te, mia Agnese, e il mio figliuolo. Wl^ 218 IL Cattivo operaio u Povero il mio bambino! or Tonta ignora Di che la vita mia contaminai ; Ma quando ei cresca coU'etade, oh allora Se di suo padre ti chiedesse mai, Perchè non abbia a maledirne il nome, Digli eh' è morto ma non dirgli come. « Soltanto allora che fatai cagione Ti fosse anch'egli, com'io fui, di pianto, Né chiamarlo valesse alla ragione Il tuo esempio e il tuo amore, oh! allor soltanto Pur ch'ei s'arresti sul cammin del vizio, Le mie colpe gli narra e il mio supplizio! » - Cosi dicendo avvicinossi al letto, Dove su rozza coltrice giacente Il suo pallido e biondo figliuoletto L'alto sonno dormia dell'innocente, E sovra il labbro tutto il cor raccolto. Su lui chinossi e lo baciò nel volto. — E fu questa la gioia ultima e santa Che sulla terra gli venia serbata! — Sotto il fragor di spessi colpi infranta Cade la porta : — una coorte armata Su lui si slancia, e di catene avvinto Seco l'adduce nel fatai recinto. E giustizia fu fatta. — In capo a un mese Chi un miglio fuor della città traea, Di cinque spoglie alla rea trave appese Da lungi nereggiar l'ombra vedea; E quel dì cento spose ai lor consorti • L'istoria ripetean de' cinque morti. i m LE DUE FIAMMELLE AMOROSE LE DUE FI jLE (*) Oh Benso, oh Benso mio* ere lilo, sai, L*ultima volta eh* io ti vòggo è questa! I. P^'alle rive di Ponente, ^Là tra Genova e Savona, Dove il suol festosamente Di colline s'incorona, Sta un'allegra terricciuola, E la chiamano Albisola. Quivi aranci ed oli veti Sotto un ciel che non ha verno, Quivi colli sempre lieti Tra '1 profumo e il verde eterno : È una terra che par nata Dal capriccio d'una fata. Ma al di dietro di que' clivi Qual contrasto non t'aspetta! Non più aranci, non più olivi, È una terra maledetta ; Per due miglia di cammino Pochi sterpi e qualche pino. O L*argomeuto ò tratto da un pietoso racconto di Pietro Oiuria. LE DUE FIAMMELLE AMOROSE Poi nel fondo, come tende Stese intorno alle campagne, La gran cinta si distende Delle liguri montagne; Ed in mezzo ignudo ed erto Un pinnacolo deserto. Pie mortai non è salito Sulla cima di quel monte; Nudi massi di granito Gli ricingono la fronte: Quel gran monte desolata Si nomò Picco Spaccato. La montagna, in due squarciata Dalla cima insino al fondo, D'una gola «terminata Schiude il baratro profondo; E in quel baratro si sente Muggir l'onda d'un torrente. Chi dall'alto il guardo spinge Nell'immensa spaccatura, Sente il cor che gli si stringe D'ineflFabile paura, E appressarsi più non osa Alla gola spaventosa. Cento istorie strane e orrende Di quel Picco avrete intese; Ma fra tutte le leggende Che si narran nel paese La più cara e la più mesta. Se m'udite, sarà questa. p ( LE DUB FIAMMELLE AMOROSE IL Era presso al tramonto — il sol morente Mandava sulla ligure marina Una tremula striscia rilucente, Che al soffio della brezza vespertina Splendea sull' increspate onde spumanti Come un lenzuol di gemme e di brillanti. E della spiaggia sull'estrema parte Di marinari una gioconda schiera Le vele apparecchiavano e le sarte D'un bastimento, sulla cui bandiera In campo azzurro una Madonna appare, Che sotto ha scritto: La stella del mare. Poco distante dalla riva intanto } Sull'uscio d'una povera casetta \ Sedea d'un bruno marinaro accanto } Una pallida e bionda giovinetta, I Che stretta il core da pietà profonda ■ ' Guardava il sol che scomparia nell'onda. — « E tu parti, dicea, caro il mio Benso, < Tu vai lontan dalla natia tua terra, { Vagando sempre per quel mare immenso 1 Colle procelle e coi pirati in guerra, \ Mentr'io qui resto abbandonata e sola Senza il conforto della tua parola. jn" 254 LE DUE FIAMMELLE AMOROSE « Ben dieci volte sei partito e mai Come stasera io non fui mai sì mesta : Oh Benso, oh Benso mio, credilo, sai, L'ultima volta ch'io ti veggo è questa ! Non so perchè, ma qui nel cor mi sento Quest'orrendo e fatai presentimento. » — — « È amorosa paura, angiolo mio. Questo fosco pensier che t'addolora ; Il nostro amore è benedetto, e Iddio Ci vorrà uniti sulla terra ancora.... Or via, non pianger Lisa ! e col tuo pianto Non far più grave il mio dolor ch'è tanto ! » — « E perchè nel pensier sempre ti tomi Là in mezzo al mar la rimembranza mia E nel silenzio de' tuoi lunghi giorni Qualche parte di me presso ti sia, Prendi, o mio Benso, e sul tuo cuor nascondi Quest' anellin de' miei capelli biondi.... » — — « Benso! non piango più.., guarda! son mesta ; Sì, ma tranquilla e l'avvenir non temo.... • Bando al triste pensier che ci funesta Le pie dolcezze del saluto estremo : Nella mestizia di quest'ultim'ora Dimmi, amor mio, che ci vedremo ancora. : l ) V f l I y r K ( (^ — « E anch'io, mia Lisa, anch'io t'avea serbato Un pio ricordo del mio grande affetto : [ Guarda ! è un povero cencio lacerato : Che da cinque anni mi sta qui sul petto, ; Unica e santa eredità solenne \ V Che dall'estinto genitor mi venne. ) -Big [n^ LE DUE FIAMMELLE AMOROSE 255 " q] « Ma un brano egli è della fatai bandiera Che segnai di battaglie e di vittoria \ Là suironde di Lepanto alla nera \ Prua sventolava del vascel di Dona. » — E sì dicendo alla sua dolce amica Lasciava un bacio e la reliquia antica. — E di lì a poco per Tazzurro piano Veleggiava di Benso il bastimento, Ed ella udia venirle da lontano ^ L'estremo addio che le portava il vento ; ( Mentre il cor le dicea, povera mesta: ( } L'ultima volta che lo vedi è questa! ( ^ i ^e3l] LE DUE FIAMMELLE AMOROSE Ogni dì la dolorosa Scende al lido e guarda al mare, E se vede qualche cosa Da loniano biancheggiare, Il desio che la flagella Le figura nel perisier L'aspettata navicella Del suo fido marinier. Poveretta! il bastimento Che tu chiami dalla sponda È il lontan spruzzo d'argento Che spumeggia in cima all'onda: Poveretta! il punto bianco Che tu vedi in fondo al mai*, È un alcion che il volo stanco Vien sull'onde a riposar ! — ( III. i i \ i Passa un anno, un anno etemo, [ E il suo Benso non arriva! \ Yien la state, giunge il verno.... < Niun naviglio a quella riva! Chiede a tutti la fanciulla Se novelle aver ne può, Ma nessuno ne sa nulla Da quel di che s'imbarcò. \ < < cÀ Neiralbergo •lui villaggio Si r^rm&ro a peraotUi'. FosiXATO. — Voi. II LE DUB FIAMMELLE AMOROSE < ( ( ( ì ( ( ( ì l / \ ( i ) Ma una sera due soldati, Che giungean di Barberia Con gran prezzo riscattati Dalla lunga prigionia, Le fatiche del viaggio Per brev'ora a ristorar Nell'albergo del villaggio Si fermàro a pernottar. E narrar che un anno pria Gran conflitto in mar s'accese Tra i corsari d'Algeria E una barca genovese: La vittoria ai rinnegati, La sconfitta ai nostri fti, Parte uccisi ed annegati, Parte tratti in servitù. — \ Il di appresso la Lisetta / Fra la ciurma s'arruolava / D'una ligure goletta } Che per l'Africa salpava: ) Raso il crine, d'una bruna Marinara si coprì.... E di lei novella alcuna Non s'intese da quel dì. 260 LE DUE FIAMMELLE AMOROSE IV. È il due novembre — il dì sacro alle care Eimembranze dei morti. Ad uno ad uno. Di qua di là dairumil casolare I fedeli giungean vestiti a bruno, E, raccolti nel mesto santuario, In coro recitavano il Rosario. E nella parte più remota e scura Della povera chiesa si vedea Eitta in piedi una pallida figura Che al ciel conversi i cavi occhi tenea, E tutta avvolta nel suo velo nero Parca un'ombra fuggita al cimitero. Era la Lisa! — Avea cercato invano Per mari e monti il suo perduto bene, E tornava quel giorno da lontano, Che una speranza ancora la sostiene, Una speranza che in suo cor nutrica Del suo paese una leggenda antica. La qual narrava che in quel dì sacrato A mezzanotte si vedean calare Là tra le gole del Picco Spaccato L'alme di quei ch'erano morti in mare, E in cappe nere e in lunghe processioni Passeggiavan su e giù per i burroni. — E poi che invan per cento giorni e cento Sotto l'estranio ciel l'ebbe cercato, Pensò che all'ora del naval cimento L'avesser morto e in fondo al mar gittate. Onde al Picco venia quel giorno istesso L'anima a salutar del suo promesso. [n" LE DUE FIAMMELLE AMOROSE 261 "^ Terminate le sacre salmodie, Per le propinque valli mestamente A gruppi a gruppi e per diverse vie Si disperdea la convenuta gente, Volgendo un guardo di gentil compianto A quella cara che pativa tanto. E come spento fu l'ultimo cero. Usciva anch'essa, e taciturna e sola S'incamminava per l'ermo sentiero Che conducea nella terribil gola, E da lontan s'udian sotto i suoi passi' Fremer le foglie e rotolare i sassi. — » Oh ! ti vedrò, dicea, Benso diletto. Oh ! ti vedrò dopo tanti anni ancora ! Là dove il varco è più scosceso e stretto M'apposterò sul suo passaggio, e allora In procession cogli altri morti anch'esso Lo sposo mio mi passerà dappresso. « Gli mostrerò quel brano di bandiera, Eicordo estremo d'un amor perduto, Ch'ei lasciato m'avea l'ultima sera. L'ultima sera eh 'io l'ebbi veduto : E benché, da quel dì tanto mutata, Eavviserà la sua fanciulla amata. « Poi gli dirò che l'amor suo soltanto Di mia bellezza ha logorato il flore. Che questi solchi me li fece il pianto, Che consunta così m'ebbe il dolore; E quando questo gli avrò detto, oh ! allora Forse, chi sa, gli parrò bella ancora. » — [nu 262 LE DT:E FIAMMELLE AMOROSE E su pel monte si spingea. — L'arcana Di quel giorno feral malinconia, Lo squillo della funebre campana Che a lenti tocchi per Taér venia, Accrescean la terribile e severa Solennità di quella notte nera. E grosse nubi dal nembo condotte Si vedeano vagar su per le vette; Stormiano i pini e tra gli scogli rotte Cupamente gemean Tonde soggette, Mentre ingolfato nella gola oscura Muggiva un vento che mettea paura. E Lisa avanti ; — su per l'irte rupi S'arrampicava agli aspri orli sporgenti, Correa tra l'ombre, si perdea nei cupi Dell'orrenda boscaglia avvolgimenti ; D'un'anima smarrita avea sembianza Che s'affrettasse alla notturna danza. Entro le pieghe del suo vel squarciato Svolazzava la chioma in preda al vento, Ed essa avanti senza trar mai fiato Con una furia che facea spavento ; Per un istante in cima al Picco apparve..., Poi nell'immensa oscurila disparve ! E su pei monti i negri nugoloni Sempre più si veniano accumulando ; Fischiava il vento traverso i burroni E s'udia da lontano a quando a quando Per quella solitudine profonda La campana echeggiar, frangersi l'onda! ^ M r LE DUE FIAMMELLE AMOROSE V. Ma sul farsi del mattino Un errante contadino Che quel monte valicò, Sovra un sasso vide assisa La figura della Lisa E trem andò s'accostò. La sua chioma incanutita Dalla fronte irrigidita Le discende infino al pie; E una man che par di cera Stringe il brano di bandiera Che il suo Benso un dì le die. Ha le braccia al sen conserte, Le pupille tutte aperte Tien rivolte sul burron; E col guardo fisso fisso Par che cerchi in quell'abisso Il diletto suo garzon. Ella è morta, — Nel sacrato Con gran pianto sotterrato Il suo corpo fu così: Ma l'istoria dei due cari Fra quei buoni marinari Vive ancora ai nostri dì. E Qar SD cha ogu anno la a t. /ìe roort S ve^goa dus banche flamnmlle conaorti E narran che ogni anno la sera dei morti Si veggon due bianche fiammelle consorti, Che, come sospinte da un solo desir, In vetta a quel Picco si vanno ad unir. Leggiera leggiera s'avanza la prima Dei flutti spumanti lambendo la cima Infln che sul lido si viene a gittar.... È Palma di Benso che sorge dal mar. E l'altra, che il vede venir da lontano, Si spicca dal monte, si cala nel piano; Cqn ansia amorosa d'incontro gli vien.... È Lisa che chiama, che cerca il suo ben. E allora nel casto desio d'un amplesso Via via per i monti si corron d'appresso, Ed or nella valle si lascian veder, Or pendon sull'orlo degl'erti sentier. E forse quei balzi, quei guizzi lucenti Son baci furtivi, son palpiti ardenti, Son care e soavi parole d'amor Che l'alme gemelle si scambian fra lor. Ma appena un barlume dell'alba nascente L'estremo inargenta confin d'oriente. Con volo concorde la coppia fedel Ascende — s'innalza — svanisce nel ciel ! .-^ "^ IMOR DI MADRE — ^g r AMOR DI MADRE ieni, la mia bambina. Vieni, mio solo amor! Oh ! quella tua testina Ch'io me la baci ancor. Dio ! come tu sei bella, Come gentil tu se' Colle tue bionde anella Cadenti insino al pie ! Non correr tanto, o cara. Perchè mi fai tremar : Stammi qui presso e impara Com'io ti sappia amar. Fin da quel dì solenne Che a me il Signor ti die, Bacio nessun ti venne. Cara, se non da me. A te il materno petto Fu cibo ed origlier: D'un mercenario affetto È orribile il pensieri AMOR DI MADRE Io ti vegliai la culla, Io balbettai con te;' Io t'avvezzai, fanciulla, Ai primi passi il pie. Se tu sapessi come Piansi di gioia il dì Che della madre il nome Dalla tua bocca uscì ! Io ti serrai sul petto, Mi sorridesti tu.... — « Mamma ! » — m'avevi detto, Io non volea di più. E se altra mai parola Io non udia da te, Quella parola sola Saria bastata a me. Sentimi, cara, — quanto S'ami nel ciel non so; So ben che amor più santo Darsi del mio non può. Quando ti veggo in festa. Ho il paradiso in cor, Ma se ti veggo mesta. Dio ! come soffro allor ! Quando con que'tuoi grandi Occhi color del mar Piangendo mi domandi Quel ch'io non posso dar! À [rj " AMOR DI MADRE 269 " q] Esser vorrei pur io Così potente allor, Com'è potente Iddio Per contentarti ognor. Ma non mi chieder mai Quel ch'io non posso dar; Quel dirti: No!... tu il sai, Troppo mi fa penar. Vieni su' miei ginocchi, Yieni, mio solo amor! Voglio baciarti gli occhi. Voglio serrarti al cor. Dimmi che m'ami tanto. Che mi vuoi tanto ben. Che non conosci il pianto Quand'io ti stringo al sen: Dimmi che dopo Iddio Non amerai che me, Dimmi, angioletto mio: — Mamma ! morrò con te ! L'AMOR D'UNI BIMBIIM L'AMOR D'UNA BAMBINA 1 li è ver, mammina mia, Che vuoi saper da me Quanto Taffetto sia Che mi costringe a te? Cosa più grande al mondo Dell'amor mio non so; Il mar, elfo tanto fondo. Certo capir noi può. Quando al tuo sen talora. Mamma, mi fai dormir, L'estasi di quell'ora Kon te la posso dir. ^ Il mio abitin sì bello ^ Che mi sta tanto ben, ) Io ti darei fin quello > Pur di dormirti al sen, > Sempre ti gira intorno Del mio pensiero il voi : . Al nascere del giorno, J 1 Al tramontar del sol. ) RT" 272 L'AMOR D UNA BAMBimA ÉL- Colle manine in croce Del mio altarino al pie Kecito a bassa voce L'Avemmaria per te. E donde avvien che amando Di questo grande amor^ Posso di quando in quando Esa^r cattiva ancor? Oh! mamma mia, perdona; Non lo sarò mai più ; Voglio esser tanto buona Come sei buona tu. Mamma, te lo prometto, Sarò obbediente ognor; Imparerò il sonetto Non istudiato ancor. Se tante volte ho pianto, Non piangerò mai più: Voglio esser buona tanto Come sei buona tu. Ora una certa cosa Vorrei saper da te ; Scusa se son curiosa, Scusa, ma c'è un perchè. Ecco — saper desio Se al crescer dell'età Diverrò sposa anch'io Come sei tu e papà. ^ 7 L'AMOR D^UXA BAMBINA E sposa ch^io mi sia, Mamma, è poi vero che Mi condurranno via Ne starò più con te? Oh! se al tuo dolce amplesso Tolta foss'io cosi, E d'un omaccio appresso Viver dovessi un dì, Pregherò Iddio, mammina, E il pregherai pur tu, Ch'io resti ognor bambina Per non lasciarti più. m^ FUSIHATO. — Voi. II. 18 LO SCOGLIO DEGLI ORFANI LO SCOGLIO DEGLI ORFIINI BAIil44TA. Caduta è la notte ; — d'un lugubre velo L'immensa si copre pianura del mar; Traverso le nubi vaganti pel cielo Qua e là qualche stella si vede brillar; La luna, che incerta si mostra e s'asconde, Un tremulo raggio riflette sull'onde. Cessata è la furia del fiero^ uragano Che tutto sconvolse quel mare e quel ciel. - Ma Eenzo sull'alba pel vasto oceano Spiegava la vela del fragil battei, E « Addio, miei figliuoli ! diceva partendo. Stasera al tramonto sul lido v'attendo ! » Ma la sera è già successa AI tramonto di quel di; Mezzanotte ormai s'appressa, Né la barca compari. IT" 276 LO SCOGLIO DEGLI ORFANI " "SI Per la spiaggia erranti e soli Tra la speme ed il timor I due poveri figliuoli Van chiamando il genitor. Van chiamando in mezzo all'onde L'aspettato navicel; Voce alcuna non risponde.... Tutto mare, tutto ciel ! Agli scogli della riva Piedi e mani insanguinar ; Ma dovunque il guardo arriva Tutto cielo e tutto mar! Passa via per l'onda bruna L'ala bianca d'un alcion; Sotto il raggio della luna L'hanno scòrto i due garzon. — « Dinne, o bianco pellegrino, ; Tu che hai corso tanto ciel, Hai veduto in tuo cammino \ Un ramingo navicel? « L'hai veduto a qualche lido Sano e salvo ricovrar? » — Ma l'alcion manda uno strido.... E si perde in alto mar. Stan così la notte e il giorno . Sotto il vento, sotto il gel, -, Pur fidando nel ritomo \ Del paterno navicel. r 277 LO SCOGLIO DEGLI ORFANI E allorché la terza aurora { Quelle spiaggie illuminò, \ L'uno all'altro stretti ancora Sulla sabbia li trovò. Ma eran pallidi quei visi, Senza palpiti quei cor, Ma la morte avea recisi L'un sull'altro quei due fior. i E davanti a lor giacca ( La reliquia d'un battei, Dove il nome si leggea Del paterno navicel. Deposer le salme dei due derelitti In cima allo scoglio che pende sul mar; / Del naufrago legno due pozzi confitti A imagin di croce sovr'esso piant;ir : <)uel memore scoglio venia da quel dì Lo Scoglio degli orfani chiamato co.si. Li PREGHIERt DELLA SERI r ^ LA PREGHIERA DELLA SERA Tramonta il dì; — la placida Aura del vespro oscilla Al suono malinconico Della notturna squilla, Che in flebile armonia Dalla torre annunziò TAvemaria. Einchiusa nel silenzio Dell' umil cameretta, La solitaria vergine Presso l'aitar si getta ; E il vento della sera L'incenso invola della sua preghiera. La benedetta lampada Piove una luce mesta Dell'innocente vergine Sovra la bionda testa, E le incorona il viso D'un' aureola che par di paradiso. — « Ave Maria! se il fervido Suon della mia favella Infino a te può giungere, Vergine santa e bella, \ Guarda la poveretta Che da te sola ogni suo bene aspetta. [rrtl 280 LA PREGHIERA DELLA SERA " *q| « Ave Maria! sul placido Guancial del mio riposo Maternamente vigili Il tuo sguardo amoroso; E, se sognar degg'io, Mostrami in sogno il paradiso e Dio. » ) ; > ) ) ) > > « Ave Maria! sull'angelo ; Che mi donò la vita { Scenda, o pietosa Vergine, La tua celeste aita, E a lei che m'èsì cara Una serie di lunghi anni prepara. « Ave Maria! sull'orfano Stendi la man pietosa; Manda un conforto al misero Che più sperar non osa! E dell'afflitto il pianto Tergi, Maria, tu che sofferto hai tanto ! « Ave Maria! nell'ultima Ora del viver mio Il moribondo spirito Tu raccomanda a Dio! Chi nel tuo bacio muore Si sveglierà nel bacio del Signore, » — E sì dicendo il limpido Sguardo levò la pia ^ Ed alla santa imagine Sorrise di Maria: Poi con sommessa voce Si fece il segno della santa croce. .♦■ r ^ A GU END alina V.,.. A. FANCIULLA DODICENNE l dunque ver che airanima Degli estri miei dolce ti suona il canto? È ver che alla mia povera Musa ti stringe un incompreso amor? Ebben, fanciulla, e sia per te soltanto Questa parola che mi vien dal cor. — Te benedetta! il facile Della vita pendio s'apre a' tuoi piedi ; Lieti i tuoi dì trascorrono Fra le dolcezze del paterno ostel, E se intorno ti guardi, altro non vedi Che fiori sulla terra ed astri in ciel. Una carezza, un bacio, Il don promesso d'una rosea vesta, Le melodie del cembalo Balzanti al tocco di tua man gentil. Un nastro al collo, un fiorellino in testa. Ecco i sogni del tuo vergine aprii! j [ni3 88E A OUENDALINA V.... A. " 'ni S ) ) Corri, fanciulla, slanciati In questa di piacer danza innocente, Batti i tuoi vanni, o candida Farfalla, in mezzo alle rugiade e ai fior... È breve il gaudio che il Signor consente, E coU'età dell'innocenza ei muor! Altri saranno i palpiti Che a te, fanciulla, l'avvenir prepara; Altre le arcane gioie Ch'or la tua mente indovinar non sa: Gioie tremende saran quelle, o cara, Ma non le gioie della prima età. Non chieder, no, che rapidi Trasvolino i tuoi primi anni ridenti; Oh! tu non puoi comprenderla Del lor profumo la gentil virtù! Sorvien l'ebbrezza d'altri affetti ardenti, Ma quel profumo non ritorna più. Corri su dunque, slanciati Incontro al bacio delFetà fuggente; Tutti t'inchina a coglierli Della tua santa primavera i fior... È breve il gaudio che il Signor consente, E coll'età dell'innocenza ei muor! •— ♦^•- f ( ( i fr- < t ) ANCOR MADRE Ancor madre!.... oh le gioie profonde Che quaggiù mi consente il Signor! Quanta vita nel sen mi diffonde Questo palpito arcano del cor! Non credea che il materno mio petto Tanto affetto — potesse albergar, Che ad un nuovo delirio d'amore Questo core — potesse bastar. Ma l'amor d'una madre è infinito Come un cielo ch'è senza confln: Più di stelle quel cielo è vestito E più svela il suo immenso cammin. Oh diletti, che intorno mi state, Non chinate — lo sguardo così : No, per voi nel materno mio seno Non vien meno l'affetto d'un dì. ai [n»3 284 ANCOR MADRE ^J^ All'amor ch'io vi porto, o miei cari, Non fa oltraggio l'amore novel... Non si turba lo specchio dei mari Sotto l'onda d'un nuovo ruscel. Se un fratello il Signor vi concede, Non vi diede — per questo un rivai; Tutti, tutti d'un nome io vi chiamo. Tutti v'amo — d'un palpito egual. All'eterno del sole sorriso D'una madre assomiglia l'amor; Benché in raggi infiniti diviso, Splende in tutti d'un solo fulgor. Oh! stringetelo al fervido petto L'angioletto — che. Iddio ci largì : Alla nostra ghirlanda d'amore Questo flore — s'aggiunga così. m f AD A, C. n altro canto!... Tultimo ""^ Canto che udrai dalla mia bocca è questo : E s'ei ti manda all'anima Un senso di tristezza e di dolor, i Deh! mi compiangi ; - quando il core è mesto ] È mesta anch'essa la canzon d'amor. Mesto son io!... le giovani Speranze della mia vita rìdente Tutte le infranse il turbine < D'una sventura che non ha confln; < E il soffio del dolor passò repente Sui pochi fior che mi cingeano il crin. D'intorno a me le splendide Memorie del passato invan richiamo, Invan domando un ultimo Lampo del gaudio che gustai quaggiù,.. La cara voce, che diceami « Io t'amo, » Oh ! quella voce non l'udrò mai più. qi r 263 UN ADDIO Sulle tue bionde treccie Più non potrò, perduto angelo mio, Depor quel casto bacio Che tanta parte mi schiudea di ciel, E per la vita accompagnarti anch'io Custode indivisibile e fedel. Sognai l'immenso gaudio Del tanto amor che il tuo labbro m'offria, Di quell'amor santissimo Che arcanamente custodiva in me, Sognai l'ebbrezza di chiamarti mia, Di viver sempre e di morir con te! Con te volea dividere La mia parte di gioia ed il mio pianto ; Nei giorni del mio giubilo Nelle mie travagliate ore di duol Mi sarei vòlto a te com'elìanto Che innamorato si rivolge al sol. Ma d'improvviso nugolo Fu quel limpido sole ottenebrato! Tolto all'ardente raggio. Rapito a tanta luce e a tanto amor, Il povero ehanto abbandonato Reclina il capo mestamente e muor. E tu mi amavi! il vergine Tuo cor volava giubilando al mio: Misterioso un palpito Le nostre sventurate anime unì, E il dì che dirmi tu dovesti addio V Quanto il piangesti quel teiTibil dì! ; ^eJÉ (n^ UN ADDIO 287 «^ Oh! se il mio amor quest'unica Dovea lasciarti eredità di pianto, Non io chiamata ai fervidi Sogni t'avrei d'un'altra vita allor; Di poche gioie pel fugace incanto, Ko, favellato non t'avrei d'amor. Dell ! mi perdona, o povera. Se t'ho il sospiro del mio cor proferto ; Io non credea sì torbida Per noi volgesse Tonda del destin ; Yolea di fiori apparecchiarti un serto, E sol di spine t'ho recinto il crin! Deh! mi perdona, e lascia Che in tanta del mio cor melanconia Le più soavi imagini Della mia monte sien converse a te. Che tutti i baci della bocca mia Vengan tutti a cader, cara, al tuo pie. Che se l'inesorabile Destin m'invola al tuo sognato amplesso. Angiolo mio, quest'anima, Anche divisi, ti sarà fedel; E se amarmi d amor non t'è concesso, Pur che tu m'ami, mi dirai fratel! M^ \ pr IL MIO DOLORE ALLA SFOBIL DONH.:ì I < CONTESSA SOFIA ANTONIETTA ALBRIZZIH i om'arpa melanconica, ^ Quando la bacia il vento, Lungo per l'aura il fremito Manda del suo lamento, Cosi, Gentil, quest'anima Abbandonata e mesta De' tuoi pietosi numeri All'armonia si desta. / t ^^ E confidente slanciasi Al tuo fraterno amplesso E ti domanda il gaudio Di rimanerti appresso; Lieta se in tante angoscio Le vien dischiuso un core. In cui versar la torbida Piena del suo doloro. (') In risposta ad alcuni 1)6lliss:mi versi <ìi condo^lìaii/.a cIih la uobil Dama indirizzava airautore. r IL MIO DOLORE Ed or che irresistibile M'urge il soffrir mio tanto, Dolce, m'è pur la memore Nota del tuo compianto ; Più dolce ancor ripeterti Di quanto amor l'amai La benedetta martire Che non vedrò più mai. Oh! da quel dì che il pallido Labbro giungendo al mio, Ella in un lungo ed ultimo Sguardo mi disse addio, Oh! da quel di la povera Anima mia, siccome In un lontano esilio, Sempre la chiama a nome. Binchiuso nel silenzio Della romita stanza. Un dì per noi sì splendida Di luce e di speranza, Sul vedovato talamo Io m'abbandono e grido, Qual desolata rondine Sovra il deserto nido : — «Anna, ove sei? rispondimi! Tu che mi amavi tanto Perchè non vieni a tergere Da queste ciglia il pianto? Da te diviso, in odio M'è questa vita, il sai, E tu mi lasci piangere, E tu non tomi mai? PusixATo. — Voi: ir 19 [STI 293 IL MIO DOLORE " ^ — « Torna, ^dorÉ||^ ai fervidi Baci del tuo dneito; La pallida tua faccia Torna a posarmi in petto; Pur ch'io ti sia dappresso, Pur ch'io ti vegga ancora, Torna sul letto istesso Dove giacevi allora! « Forse il mio ardente bacio. Forse la mia carezza Già non t'aveva, oh! povera. Ai patimenti avvezza? Forse fra tante ambascio. Angiolo caro e santo. T'ho mai veduta piangere Quand'io ti stava accanto? « Oh! vieni adunque e all'estasi Del tuo gioir t'invola Per confortar quest'anima Che non può viver sola; Vieni, ritoma a cingere Il tuo terrestre velo.... Senza il mio amor, rispondimi. Forse ti basta il cielo ? » — Cosi di tante imagini Sotto il tremendo incarco Nel delirar dell'anima Tento al mio duolo un varco; E delle mie memorie Nel santuario arcano Trovo quel poco gaudio Che altrove io cerco invano. [gip- 3 IL MIO DOLORE f Pur questo duol che m'agita Io l'accarezzo, io l'amo; Quand'egli vien, l'abbraccio, Quando mi fugge, il chiamo : No! per le mille gioie Che mi presenta il- mondo Io non darei una lagrima Del mio dolor profondo. Oh questo mio supplizio Non mi sia tolto mai ! Mi sentirei più misero, Più sventurato assai; Se mi rimane un gaudio Sovra la terra, è questo: La speranza di vivere Eternamente mesto! E tu, Gentil, che gl'impeti Del mio dolor comprendi, Tu che ove geme un misero Ivi lo sguardo intendi, Vieni col mesto cantico A rinfrescar la pia Ed immortai memoria Della sventura mia. Dimmi che ormai quest'anima Più non avrà conforto. Che il mio dolor fia simile A un mar che non ha porto: Ma dimmi ancor che al termine Della mia stanca vita Dato mi fia rivivere Presso la mia rapita! Efe— AD ELISA ZANARDELLI 6 lome un lucente specchio Finge col suo riflesso Tutte le varie imagini Che gli son poste appresso, Della mia occulta mente Ogni pensier cosi, mistica veggente, Mi ripetevi un dì. --^É AD ELISA ZANARDELLI É^ E al prepotente imperio D'un cenno mio soltanto Ti comandava il gaudio, Ti costringeva al pianto; (*) E qual devota ancella Con facile obbedir Ogni mia idea novella 10 ti vedea compir. Solo una vòlta, il tremulo Tuo ciglio corrugando, Ti rifiutasti al tacito Del mio pensier comando : Ma il carezze vói suono Della mia voce allor: « Cedi, ti disse, e in dono Avrai due versi e un fior. » Tu sorridesti e docile Al mio volere arcano Sulle pensate pagine Stendesti allor la mano; Poi con festoso incesso Muover ti vidi il pie, 11 giiiderdon promesso Quasi chiedendo a me. E tu l'avrai — del povero Mio verso il debil suono Ti vola incontro a porgerti Una metà del dono; Ma il fior che t'ho promesso, mia fanciulla, allor. No, non te l'ofiro adesso Quell'invocato fior. (*) Si allude agli esperimenti freno^magnetici. r } AD ELISA ZANARDELLI Come il pensier lo imagina, Come il desio lo vuole, Ne cerco invan l'effluvio Sulle terrene aiuole: Quel fiore peregrino Che in dono offrirti io vo', No che in mortai giardino Crescer quel fior non può. Quando il potente fascino Delle mie conscie dita T'avrà inspirato il soffio D'una seconda vita E il tuo spirto diviso ) . Vivrà soltanto in me, ' TJn fior di paradiso Io penserò per te. Tutti i color dell'iride Gli pioverò nel grembo, Di sotf^rumani effluvii L'avvolgerò in un nembo; E poi che sul tuo cuore Posto l'avrò cosi: « Ecco, dirò, quel fiore Ch'io ti promisi un dì. r IN MORTE DI BIUNCH BmiSTINI e non conobbi, o giovinetta, e tanto Pur mi strinse dolor di tua partita, Che amaramente sul tramonto ho pianto Della tua vita. E quest'inno, che all'anima commossa Un gentil senso di pietade impara. Io vengo a lagrimar sulla tua fossa, Anima cara! Nuvoletta che naviga leggiera Per l'azzurro de' cieli e poi svapora; Fior che olezza al mattino e giunto a sera Si discolora; Stella cadente che d'un fatuo raggio Solca la notte e sfavillando manca... Così passavi nel mortai viaggio. Povera Bianca! F; ì UORTB DI BIANCA BATTI3T1NI Pure in quella fuggente ora di vita Tanta lasciavi eredità d'affetti, Che pianser tutti all'angoscia infinita De' tuoi diletti. '-eira m^ Ed era giorno di comun sventura E di civico lutto il dì fatale Che ad altra patria, o bella creatura, Spiegasti Tale: r 298 IN MORTE DI BIANXA BATTISTINI ^ Che tutto quanto in uman cor sta chiuso Di virtude e di fò semplice e schietta, Iddio Paveva entro il tuo cor profuso, benedetta! E cosi dolce era il tuo sguardo e tanta Dal tuo bel volto carità movea. Che incoronato d'un'aureola santa Esso parca. Angiolo nato airimmortal sorriso, Non era, no, quaggiù la tua dimora! Tu sfioravi la terra, e al paradiso Redivi ancora. Né t' increbbe di te che s\\^ celesti Sfere tornavi e al viver tuo giocondo. Ma si di lor ch'eternamente mesti Lasciavi al mondo: Mesti, poi che la tua voce amorosa Se tu sei morta. I lor vedovi di più non conforta, Poi che trovan la vita inutil cosa. Oh ! ma se tanto afianno era serbato A chi beasti di si brevi amplessi, Forse era meglio che il tuo ciel lasciato Mai non avessi!...: ^■'. y 1 GIOVANE SPOSA r ^ ì ì L filOYAHl SFOSA erchè sotto il bianco — tuo velo di sposa p Al suolo declini — la fronte pensosa? Perchè sulla mesta — tua bruna pupilla Furtiva ti spunta — di pianto una stilla? Nell'ora che il bacio — t'attende d'Amor Qual cura improvvisa — ti sorge nel cor? Ah, sì, lo comprendo — l'affanno segreto Che l'alba t'infosca — d'un giorno sì lieto! Al fianco ti vedi — la dolce sorella Che bacia piangendo — la fronte tua bella, E quasi lamenti — dischiuso per te Quel gaudio che ad essa — concesso non ò. < E in mezzo alle gioie — che Amor ti prepara, Ti punge il pensiero — di quella tua cara Che mai dal tuo fianco — non s'è dipartita. Che madre seconda — ti fu nella vita, E forse vorresti — recinto al suo crin i Quel serto che in dono — t'offerse il destin. 1 r 302 A GIOVANE SPOSA Solleva, fanciulla, — quel mesto tuo viso, Bichiama al tuo labbro — l'antico sorriso ! Nel pianto fraterno — non vedi riflessa La timida gioia — che provi tu stessa ? Non vedi che tutta — trasfuse su te La parte d'amore — che Dio non le die ? Non essa, o fanciulla, — t' invidia la festa Dei gaudi infiniti — che il mondo t'appresta : Nei santi recessi — dell'alma innocente Eterna ti prega — la gioia presente, E sempre olezzante — quel serto di fior Che al crin ti compose — la mano d'Amor ! M^. ( i ( < ( ( ( ( ( ( < ( ( A SiISA i, ®^^ _ erchè, ^ntil mia Lisa, ^ Dinanzi al fido consiglier cristallo Da si lung' ora assisa Sognando i gaudi del propinquo ballo , Orni d'aeree trine he nere treccie del lucente crine! -^^ [n^3 304 A LISA " q] Perchè tra i rosei veli Che ti circondai! come nube, almeno Tutto il candor non celi Del niveo collo e del virgineo seno, Ed a sguardi procaci < Addestrar que'tuoi grandi occhi ti piaci? Forse così ti credi Mercar sulPaltre giovinette il vanta? Incauta! e non t'avvedi Che di tue grazie il prodigato incanto Ti fa misero obbietto Di basse voglie e non di santo affetto? Oh ! se di quella pura Felicità che vita ha sol dal core Amor ti punge e cura, Sotto l'usbergo del natio pudore Gelosamente serba Quella beltade che ti fa superba! Fior che in ?iperte aiuole A larghi effluvi l'etere profuma, Col tramontar del sole Le sue fragranze e i suoi color consuma; Mentre nel cespo ascosa Sorge più bella al nuovo di la rosa. ( Beltade anch'essa ò un flore Che all'ardenti del mondo aure travolto Presto appassisce e muore; Ma, se nel vel della modestia avvolto, Dal suo tenace stelo , à Manda un profumo che ti par di cielo. - la A LISA 305 Aspro censor, non io Di quanto abbella il tuo leggiadro aspetto Ti chiederò l'oblio; Ma di que' vezzi il vanitoso aflFetto Kon sia la sola e prima Cura che vegli a' tuoi pensieri in cima. Giovin tu sei: — vestita Delle gioie che il mondo or ti prepara Scorra per te la vita; Pur che il tumulto di que' gaudi, o cara, Non turbi mai la calma E virginal serenità dell'alma. I teatri e le danze Non io ti vieto e i giovanili ludi. Se quelle dolci usanze Ti sien sollievo a' giornalieri studi, Non sdrucciolevol china Che a meno caste voluttà trascina. Ma tu m'ascolti e taci ; E d'onesto rossor tutta vermiglia Quegli occhi or or sì audaci Raccogli all'ombra delle brune ciglia, E sugli omeri ignudi Pudicamente il roseo vel racchiudi. Grazie, o fanciulla! al mio Verso indulgesti e al suo severo stile: Or t'abbandono al pio Baccoglimento del tuo cor gentile. Pago se a te fia scuola Di facili virtù la mia parola. FCSINATO — Voi. II 20 r "1 IN MORTE DI TOMMASO GROSSI Eli £01 A. (*) Roadiaella pellegrina. Che ti posi sul yerone, Ricantando ogni mattioa Quella flebile canzone. Che vuoi dirmi in tua favella, Pelleginna randinella ? » Anch'esso morto!... Oh Signore, Signore, Quanta nel giro di sì brevi aurore Su questo irruppe desolato suolo Onda di duolo ! Misera Patria! un dì giardin del mondo, Or squallido deserto ed infecondo ; E i pochi fior che Iddio t'avea concessi Caduti anch'essi! f) Pubblichiamo questa giovanile e commoTente elegia che la compianta Erminia Fuà-Fusinato dettava prima di divenire sposa al nostro Autore e che ad esso diede argomento di rispondere colla poesia che segue. ^ rh Nota deU'Editore. 2 1^ qJ [fj " 308 IN MORTE DI TOMMASO GROSSI " 'gì Misera Patria!... quali antichi errori Sconti adesso con sì lunghi dolori? D'alloro un giorno, ed or ti sta sul crine, Serto di spine. Ti geme ancor nella percossa mente D'incliti morti il sovvenir recente; E sotto l'ombra d'un novel cipresso Ritorni adesso. Forse chi sa che di tanta sventura Alfin trabocchi la fatai misura: Oh! ma tu non potrai, dolce poeta, Vederla lieta! Forse che al gaudio di più lieti giorni Questa povera afflitta ancor ritorni : Oh! ma tu quelle sue glorie più mai Non canterai. Nuovi carmi altri Bardi intuoneranno, D'amor, di guerra, di gioia, d'aflFanno; Oh ! ma chi al par di te farà ne' petti Pianger gli affetti? Chi mai, ne' giorni che verran, ridarmi Potrà l'effluvio de' tuoi dolci carmi E quella santa voluttà che spira Dalla tua lira? Éfe- Quante notti mi fér pensose e belle I tristi casi delle tue novelle; Quantijpalpiti al mio core apprendesti Sublimi e mesti ! [nu IN MORTE DI TOMMASO GROSSI 309 "^ Quante volte alla rondin pellegrina Che trasvolava al mio veron vicina, « Del tuo vate, io diceva, o rondinella, Dammi novella! » Ed essa al suono deir inchiesta usata Baccoglieva la pronta ala spiegata, E parea dirmi con note giulive : « Ei canta, ei vive ! » Ma un mattin del dicembre ella'^redia Con tardo voi la rondinella mia. Battendo l'ala aflFaticata intomo Al mio soggiorno. « Perchè, le dissi quand'io l'ebbi vista. Altre volte sì lieta ed or sì trista ? » « Il mio cantor, rispose in suon di pianto, E in camposanto ! » È in camposanto!... Oh allor che in primavera Tu riedi, sulla sua croce ogni sera Posati e digli pace in tua favella, rondinella ! Così moriva anch'esso — e così questa Stella d'amor tanto soave e mesta Dal pallido orrizzonte scomparia D'Italia mia. — Sovra la fossa del gentil Cantore Piangi, Silano, — ma del tuo dolore Il tributo non sia, non sia soltanto Inutil pianto ! r 310 IN MORTE DI TOMMASO GROSSI D'eterno monumento alla memoria Il tuo lutto confida e la sua gloria, E insegna al mondo che i suoi Grandi ancora Italia onora. Vati cortesi, se la flebil lira Del triste evento alla pietà sMnspira, Il vostro offrite sull'altar fìinesto Inno più mesto; E. Voi che quanto v'ha di grande e bello Fidate all'opra del divin scalpello, La cara imago che ci fu rapita Tornate in vita: E su quel marmo, a custodire eletto La santa effigie del Cantor diletto. Scenderanno a depor l'eterna fronda Bice e Ildegonda. 1854. E. Fvk. -•♦*■ TOMMASO GROSSI 1 ^ IN MORTE DI TOMMASO GROSSI AD ERMINIA FFA^ anch' io commosso al flebile Suono del tuo lamento, Come fronda che s'agita Al fremito del vento, Lascio cader nel calice Del funebre tuo fior Questa romita lagrima Che mi suade il cor. E col pietoso cantico Che il tuo dolor t' inspira Io pur confondo il gemito Della mia triste lira; E dairaltar dell'anima Mando un sospir così Al benedetto Spirito Che ad altro ciel sali. r 314 IN MORTE DI TOMMASO GROSSI Morto ?... e nessun rivivere Farà più mai su questa Sublime arpa d'Italia Quell'armonia sì mesta! Finger potran la folgore, L'aria, i profumi, il sol, Ma no in sì dolci numeri Armonizzare il duol. ^ Ad altri pur di splendidi E forti estri l'incanto: A lui la melanconica Soavità del pianto, E quel potente fàscino D'arcana voluttà Che ti comanda il palpito D'una gentil pietà. Come tu l'ami, Erminia, Ed io così l'amai; Kè cancellar dal memore Pensier potrò più mai Le sante ed ineftabili Gioie del primo dì, Che d'Ildegonda ai flebili Casi il mio cor s'aprì. Quella dolente istoria, A me sì cara allora, Come una pia reliquia L'ho custodita ognora; E quelle antiche pagine Serban le traccio ancor Delle soavi lagrime Che mi venian dal cor. r IN MORTE DI TOMMASO GROSSI Dio! come brevi al genio Tu numerasti l'ore! Una lucente striscia Che solca l'ombre e muore.... E poi di nuove tenebre E molte e lunghe età, Pria ch'altro lampo illumini La fitta oscurità. Oh ! se alla dolce patria Niega il destin nemico L'alta possanza e il fulgido Serto del tempo antico, Delle sue poche glorie Il rapido balen Lasci ne' tardi secoli Qualche vestigio almen. No pel tuo vate, Erminia, Kon avrai chiesto invano La maestà del tumulo Alla gentil Milano: Essa, la prima e splendida Stella del nostro ciel. Non può negare un raggio Al lagrimato avel. A queir illustre lapide Converran tutti — e in questo Dell'universa Italia Pellegrinaggio mesto. Noi pure al melanconico Estro sciogliendo il voi. Vi recherem la povera Parte del nostro duol. IN MORTE DI TOMMASO GROSSI Presso le sante ceneri Inginocchiati insieme, TJmil tributo ed ultimo Dell'anima che geme, Tu deporrai sul tumulo Il funebre tuo fior, Io la romita lagrima Che mi suade il cor! É^. LA REUeiOHE A MO^^SIGNOR F, sanna a Dio! — Dal turbine Di tante età nefande Religion sua Figlia Surse più forte e grande; Ella passò tra i fulmini Bella immortai così, Come dalla profetica Mente di Cristo uscì. L'urto di venti secoli Ella sostenne in guerra; Perseguitata ed esule Peregrinò la terra ; Contro i potenti intrepida Mosse lo scalzo pie E la sua voce indomita Tuonò dinanzi ai re. LA RELIGIONE ÉL^- Tra le fazion che ardevano Fin dall'etade antica Crebbe raggiante e incolume Perchè a nessun nemica; Perchè nel santo Codice Chiusa del suo Vangel, Vive, egli è ver, tra gli uomini Ma collo sguardo al ciel. Madre di tutti i popoli, Sotto la sua bandiera Pietosamente accoglie L'umànitade intera ; Pei traviati ha lagrime, Stringe i pentiti al cor, Per ogni piaga ha un balsamo Per ogni angoscia un fior. Folle colui che, immemore Di quel mandato santo. Della profana porpora Sogna. comporle un manto; Folle chi vuol d'un fragile Serto il suo crin fregiar.... È la sua reggia il tempio, Il trono suo l'aitar. Del suo Vangel gli Apostoli . D'un saio umil coperti Lieti posar fra i tumuli, Negli antri e nei deserti; Ma, pari alle fatidiche Di Davide canzon. L'ombre varcò dei secoli Della loro voce il suon. LA RRLIOIONE Tu pure avrai tra gli uomini Sacro e tremendo un nome ! Deirinfula levitica Ti cingeran le chiome. --eira il Ti porgeran la mistica Terga del buon Pastor; Al cor di tutto un popolo Risponderà il tuo cor. .-c^ gira-- 1^13 3») LA RELIGIONE Ardua è la via che schiudesi Sotto i tuoi passi, è vero : Sanguinerai fra i triboli Sparsi nel tuo sentiero: Ma santo è il sacrifizio Che fu commesso a te.... Sotto la croce inchinati Che il tuo Signor ti die. Da quell'eccelso yertice, Dove il tuo Dio ti pose, L'onda vedrai trascorrere Delle terrene cose ; Lunghe vedrai battaglie D'oppressi e d'oppressor E gemiti di vittime E istorie di dolor. Tu fra tant'ire indomite, Di tante spade al lampo, Tra le passion che s'urtano Come cavalli in campo, Pien di quel Dio che t'agita Tu scenderai fra lor E tra i pugnanti il bacio Bicambierai d'amor. É^ > Lungi dai cupi oracoli D'una genia delira > Che vuol dai morti secoli Risuscitar la pira, Tu santamente vigila L'ovil che Iddio ti die E pel segnato tramite Movi sicuro il pie. LA RELIGIONE E mansueto ed umile Come quel Dio che adori, Sovra i tuoi passi semina Benedizioni e fiori; E sulle sante pagine Chino del tuo Vangel, Stendi la mano agli uomini Per ricondurii al ciel. FINE DEL SECONDO VOLUME. FuBiNATO. — YoL n 21